Buongiorno Luca, indubbiamente oggi in Russia l’opinione pubblica è totalmente pilotata dalla propaganda, come Lei illustra, e questo spiega gli attuali avvenimenti, la guerra in Ucraina, la popolarità di Putin eccetera. Ma spesso, leggendo i commenti di lettori in vari quotidiani italiani che parlano delle vicende russe, ho l’impressione che questa propaganda abbia raggiunto anche molti italiani, altrimenti non si spiegherebbero le tante frasi fatte ripetute a pappagallo sui «nazisti ucraini,» sulla «Russia che deve difendersi» e via discorrendo. Come spiega questo fenomeno? (commento originale: >qui)
Proverò a rispondere in sintesi a questo quesito, che solleva problemi complessi. Mi riferisco in particolare allo scenario di lingua italiana. Quelli di lingua tedesca, inglese o francese presentano quadri diversi. Penso che le ragioni della distorta informazione in merito alla Russia e al conflitto ucraino, ma anche intorno ad altri eventi internazionali importanti, si possano riassumere in questi punti.
L’impreparazione degli operatori dei media. I servizi giornalistici, particolarmente quelli televisivi, traboccano di imprecisioni ed errori che rivelano impietosamente il disorientamento dei loro autori. Spesso indugiano su aspetti insignificanti, altre volte, mancando la capacità d’analisi, prevale la lettura ideologica. I giornalisti, spesso, non parlano neppure la lingua del Paese in cui vengono inviati. Domenica scorsa la TV della Svizzera italiana ha trasmesso un servizio nel quale la giornalista affermava che in Ucraina «la lingua russa è stata vietata.» Il dato è vistosamente errato, come facilmente verificabile, a patto di conoscere il Paese e saper leggere le fonti legislative ucraine.
I processi di lavoro invalsi nelle redazioni non aiutano. Seguo per ragioni professionali i notiziari di diversi Paesi: talvolta vedo reportage assolutamente uguali trasmessi da reti italiane, svizzere, tedesche, francesi. I testi (semplicemente tradotti) e le immagini sono prodotti da agenzie il cui obiettivo sembra essere non la qualità dei servizi, ma la loro vendibilità al maggior numero possibile di media. In questo modo è facile condizionare l’informazione: basta avere il controllo su un’agenzia e un dato errato, impreciso o volutamente fuorviante si diffonde a macchia d’olio. Possibile che nelle redazioni di grandi giornali e TV non vi sia un vaglio qualitativo? Purtroppo sì. Io stesso sono rimasto a bocca aperta, alcune settimane fa, quando qui in Canton Ticino due giornalisti di indiscutibile prestigio professionale, una italiana e uno svizzero, hanno tenuto (o, meglio, tentato di tenere) una conferenza sul conflitto ucraino. Di fronte alle domande del pubblico erano in seria difficoltà a rispondere con argomenti oggettivi, non perché impreparati, ma perché preparati a un modo di fare informazione inadatto alla gravità del momento (una breve relazione della serata >qui). Ho provato sincero imbarazzo, durante i giorni più acuti della crisi in Crimea, vedendo una delle più note inviate internazionali della TV italiana aggirarsi laggiù dimostrando di non conoscere elementi storici e politici elementari di quel territorio e intervistando i passanti in inglese. Altre volte si colgono i giornalisti farsi assistere da interpreti o commettere errori marchiani su località e protagonisti dei fatti. Con queste premesse è impossibile interpretare correttamente gli eventi internazionali.
In diverse fasce sociali, in Occidente, vi è sincera adesione alle tesi russe. Va dato atto alla Russia di oggi di aver catalizzato intorno a sé, ovunque nel mondo, persone degli orientamenti più diversi. Chi si riconosce in posizioni di «sinistra» vede nelle azioni di Putin l’onda lunga del sogno sovietico e il ritorno dell’antiamericanismo, una difesa delle «minoranze oppresse» e una «lotta antifascista» storicamente mitizzata; chi sta a «destra» è affascinato dal suo nazionalismo sorretto da forti accenti militaristi; persino chi si colloca al «centro» si ritrova nelle dichiarazioni di Putin a sostegno della famiglia tradizionale e contro il riconoscimento di maggiori diritti agli omosessuali, definiti, in Russia, con un linguaggio molto simile a quello usato in Occidente dai cattolici più conservatori. Queste parti di società occidentale filorusse hanno un sentimento comune: la nostalgia verso epoche o «valori» perduti, anche molto diversi fra loro, ma non importa. Molti operatori dei media, soprattutto quelli delle testate politicamente o religiosamente più orientate, non riescono a nascondere la loro ammirazione per ciò che sta accadendo a Mosca. In un Paese come l’Italia, dove ogni spazio dell’informazione è di fatto controllato da correnti politiche o dalla Chiesa, questo meccanismo di autocensura raggiunge il culmine e fa dimenticare facilmente i criteri di completezza, correttezza e rilevanza dell’informazione.
Lettori e telespettatori, quando si parla di «esteri,» si dileguano. La situazione è migliore in Svizzera, ma in Italia tutti gli analisti osservano che i media, quando parlano di temi internazionali, perdono seguito, perciò non hanno stimolo a farlo e a farlo bene. Vi sono eventi che suscitano una fiammata d’interesse, per la loro tragica spettacolarità (Charlie Hebdo) o perché coinvolgono dei connazionali (attentati recenti di Tunisi), ma non è così che si comprendono le relazioni internazionali. Anche a causa delle politiche editoriali dei media, il pubblico non è più in grado di percepire il legame diretto tra il nostro benessere, la nostra sicurezza, e gli eventi internazionali. I media dovrebbero guidare i loro lettori a comprendere che la distinzione tra «interni» ed «esteri» non esiste più, di fatto. Agiscono, purtroppo, al contrario, per servire al sostegno dei biechi riti della rissa politica interna, quel che è peggio, con il favore di lettori e telespettatori.
Più gravi ancora, e tutte da calcolare, sono le conseguenze che l’uso ideologico dei media produce nella stessa Russia. Assistere a un telegiornale russo, oggi, significa ascoltare decine di minuti di reportage su questioni militari, esercitazioni, parate aviatorie, sviluppo di nuove armi. Nelle analisi internazionali, sempre prive di contraddittorio, il tono è didattico e saccente. Le notizie riportate asserviscono con evidenza i fatti a un copione preordinato, trasformando i notiziari di ogni giorno in una enorme sceneggiatura, la cui tesi è fondata sull’odio che l’Occidente coverebbe verso la Russia e sulla conseguente necessità, per quest’ultima, di agire considerando ogni opzione, anche quella nucleare, come detto apertamente da Putin nei giorni scorsi a proposito della Crimea. I media non in linea rischiano la loro stessa esistenza e raccolgono seguito minimale. Sono rimasto fortemente impressionato, nei giorni scorsi, da un servizio andato in onda su una delle principali reti russe e ripreso anche dalla rete tedesca Phoenix. Alcuni ragazzi, in età di scuola media o poco più, si mostravano con orgoglio vestiti in divisa militare e, dopo aver recitato una preghiera sotto la guida di un religioso cristiano ortodosso, venivano istruiti alla marcia e all’uso di un fucile mitragliatore su un terreno innevato. Immagini non sostanzialmente diverse da quelle che ci provengono dall’«ISIS,» pur se in un altro contesto. Il giornalista presentava l’episodio come esempio di alto valore educativo. In Occidente, immagini e narrazioni di questo tipo ripetute con tale forza e ossessività susciterebbero ripulsione. In Russia, al contrario, sembrano funzionare, se la larghissima maggioranza dei Russi sostiene le politiche del Paese. In questo capovolgimento di valori i media svolgono una funzione chiave. Molti osservatori concordano nel ritenere che il recente omicidio dell’oppositore Boris Nemcov, per il quale gli inquirenti inseguono improbabili piste islamiste, sarebbe maturato in ambienti nazionalisti russi esaltati proprio dall’uso artefatto dei media.
I sentimenti di rivalsa dei Russi hanno radici profonde e meriterebbero più attenzione da parte dell’Occidente. L’uso mirato dei media cavalca queste emozioni e produce nella società effetti di estremizzazione che minacciano di durare a lungo, oltre che di sfuggir di mano ai loro stessi responsabili, e influenzano anche la comunicazione in Occidente, affidata a operatori sprovvisti di strumenti analitici o a loro volta infatuati da quella narrazione. A vantaggio dei media occidentali vi è che mantengono una relativa varietà di posizioni, sebbene sia piuttosto difficile trovare analisi adeguatamente approfondite.
Tornando alle nostre latitudini, la combinazione delle cause che ho indicato sopra e la complessità del momento generano una grande confusione. Il cittadino occidentale medio si trae d’impaccio affermando che le parti in conflitto, in fondo, starebbero sullo stesso piano («è colpa un po’ degli uni e un po’ degli altri»). Non è, visibilmente, il caso. Che vi siano responsabilità su tutti i fronti, è chiaro: ciò che manca è un’analisi che permetta di distinguere piani e valori. Da molti decenni, in Europa, non vivevamo una situazione così complessa e pericolosa: prima ci si poteva accontentare, forse, di un’informazione fatta con i trucchi del mestiere imparati alle scuole di giornalismo o di qualche «letterina» trasformata in reporter dal suo pigmalione. Di fronte alle sfide di oggi, questa visione mostra tutta la sua debolezza. Si richiede uno sfondo culturale più solido, una dirittura intellettuale ferrea. Come lettori e spettatori, oggi, ci attendiamo di essere guidati responsabilmente dai media a comprendere la complessità, non di essere lasciati da soli dinanzi a una congerie di opinioni contrapposte. Sulla realtà di oggi non si possono avere «opinioni,» bisogna saper articolare dei «giudizi,» che è cosa ben diversa. Quando i media, nascondendosi dietro un comodo pretesto di «libertà,» abdicano alla loro funzione educativa, dichiarano anche la loro la loro incapacità di giudizio, preparando il terreno alle peggiori manipolazioni dell’opinione pubblica, da cui comincia la manipolazione della democrazia.
Larissa Saliy ha detto:
Grazie mille Luca per la Sua onestà e la posizione giusta, per la lotta per i principi sani e per la verità che sta portando al lettore. Lei è uno dei pochissimi giornalisti veri italiani che raccontano le cose come stanno in Ucraina, senza essere influenzato dalla propaganda putiniana, che ha spaccato intere famiglie e ha fatto litigare gli amici, che ha messo in ginocchio la Russia, impazzita per «amore malato» verso il suo dittatore. Un «amore» cosi l’abbiamo già provato verso l’altro dittatore, che sta riposando adesso nel Mausoleo sulla Piazza Rossa. Ripensandoci adesso mi vengono i brividi… come la propaganda possa rimbambire la mente e far ripetere ai bambini questa famosa poesia: «Io sono una piccola donna, non vado ancora a scuola, ma amo Lenin.» Io sono cresciuta con questa poesia e dovevo recitarla a voce alta all’asilo. Sono «guarita» molti anni dopo, purtroppo, quando è uscita tutta la verità su Lenin. Non volevo crederci. Spero e auguro al popolo russo di guarire e al popolo italiano di non essere ingannato dalla «bellezza finta» e dalla propaganda russa, che penetra dappertutto come il cancro, rovinando da dentro. I giornalisti veri come Lei sono come i dottori che curano la mente e prevengono il contagio. Per questo, un grande rispetto e grazie. Sono cresciuta in Ucraina, ma con radici miste russe. Sono per la giustizia, che non è dalla parte della Russia, che negli ultimi anni provoca solo morte.
Luca Lovisolo ha detto:
Gentile Larissa,
Grazie per questo contributo e per il Suo apprezzamento. Non vorrei, però, che Lei si aspettasse da me una missione fin troppo alta! Devo precisare di non essere un giornalista, ma un ricercatore, per questo, forse, sono abituato a guardare a fatti e documenti, piuttosto che alle parole. La Russia torna sulla scena internazionale dopo decenni di difficoltà: concordo con Lei che negli anni recenti ha scelto le strade peggiori per farlo. Grazie e cordiali saluti. LL
Giovanna ha detto:
Buongiorno e grazie per l’analisi esaustiva, che spiega molte cose (e non lascia, purtroppo, molto spazio all’ottimismo). È proprio vero, i media diffondono notizie superficiali e certo uno dei motivi principali è senz’altro il fatto che spesso i giornalisti non conoscono la lingua dei Paesi in cui sono inviati. Le informazioni sono poi diffuse dalle agenzie interessate al profitto e non alla qualità, che fanno largo uso di copia-incolla – un fenomeno diffusissimo, questo: per esempio ho notato molto spesso che giornali di ottima fama come la Süddeutsche Zeitung, in articoli riguardanti il panorama politico italiano, riportano pari pari notizie tratte dalla Repubblica e dal Corriere della Sera, sulla cui imparzialità è meglio sorvolare.
Non avevo pensato al fascino che la Russia può esercitare verso spiriti «nostalgici;» in effetti in un paese come l’Italia, dove l’informazione è sempre di parte e lo spirito «da stadio» molto diffuso, un tale fascino è inevitabile. Temo che il giornalismo imparziale da Lei auspicato, capace di esprimere giudizi e di educare, sia difficile da realizzare perché non ben accetto, come dimostrano il disinteresse per i temi internazionali, la tendenza a farsi pilotare e la mancanza di spirito critico di troppi italiani – e non solo.
Luca Lovisolo ha detto:
Grazie per la Sua attenzione. Ricordo giornalisti come Demetrio Volcic, Gianni Minà, Italo Moretti, che erano capaci di far comprendere a fondo i Paesi dei quali scrivevano. Ne conoscevano la lingua e la cultura. Significa poterne leggere la stampa e la letteratura, dialogare con politici e cittadini senza intermediazioni: la differenza rispetto a oggi si vede. Il loro orientamento politico personale, che pur si conosceva, passava in secondo piano, rispetto alla loro capacità di analisi e racconto. Vi erano anche altri aspetti di formazione che quella generazione aveva e quelle successive molto meno o niente affatto.
Un tema che meriterebbe un’analisi ben più ampia è quello molto delicato, che cita Lei, delle «collaborazioni» fra testate giornalistiche di Paesi diversi, ricerca che andrebbe estesa ai rapporti di interdipendenza proprietaria delle società che gestiscono i media. Quanto influiscono, questi partenariati, sull’indipendenza di giornali e notiziari?
La «nostalgia» è un tratto comune del nostro tempo. Tra le molte cause del conflitto ucraino (ma non è l’unica) vi è che una parte della popolazione, quella da una certa età in su, sogna il ritorno della rassicurante Unione sovietica. Anche in Occidente non ci mancano i movimenti nostalgici. Oltre a quelli storici, sono arrivati «nostalgici» che si travestono da rivoluzionari, ma una rivoluzione all’indietro, verso un passato di autarchia e identità chiuse.
Come Lei osserva, la superficialità dell’informazione si pasce della disponibilità di molti lettori e telespettatori, che di buon grado si lasciano guidare verso il sensazionalismo o l’emozione a basso prezzo. Le analisi sul panorama dei media sanno farle altri meglio di me, ma, come pura considerazione personale, credo che se TV e giornali si limitano a «rappresentare la società dando ciò che la gggente vuole» (argomento con il quale molti giustificano la schiavitù verso gli ascolti), dimentichino che di tale società sono parte anch’essi, pertanto contribuiscono a formarla. Non vedo alcuna ragione per la quale, ad esempio, su 24 ore giornaliere di produzione televisiva non ve possa essere una (diciamo, tre telegiornali da 20 minuti) sottratta alle logiche di share e fatta secondo criteri di qualità. Quanto ai giornali, proprio oggi il principale quotidiano della Svizzera italiana dedica due pagine al conflitto ucraino: siamo alle solite, ma ormai non mi arrabbio più. Talvolta sembra che le notizie non rispondano prioritariamente all’esigenza di informare il lettore. Ho la fortuna di poter prendere informazioni direttamente sul campo, quando mi servono, ma sono un privilegiato. Tutti gli altri che fanno? Cordiali saluti.