Quando finirà la guerra in Ucraina? E’ una delle domande più frequenti che chi studia l’attualità si sente rivolgere. Non è possibile rispondere con esattezza, ma si possono analizzare i tanti fattori che influenzano il conflitto. Una lunga analisi degli elementi in gioco, a inizio agosto. La situazione dell’Italia dopo la caduta del governo Draghi. Le sanzioni, la posizione della Chiesa e molto altro.
Prima di salutarci per la pausa estiva, mettiamo un punto fermo su alcuni elementi che in questi mesi di guerra si sono fatti più chiari. Il mondo ha cambiato volto: cominciamo con una sintesi della situazione dei combattimenti e degli obiettivi di Russia e Ucraina. Scopriamo poi alcuni aspetti meno noti dell’accordo che ha permesso di riprendere le esportazioni di grano dall’Ucraina, poi ritorniamo sulla questione delle sanzioni economiche contro la Russia. Approfondiamo la posizione della Chiesa cattolica rispetto alla guerra, che si è ormai definita e riserva sorprese poco gradevoli. Infine, collochiamo la caduta del governo guidato da Mario Draghi, in Italia, sullo scenario degli eventi.
LA SITUAZIONE DEI COMBATTIMENTI
Il fronte della guerra si estende dalla città di Kharchiv, nel nord-est dell’Ucraina, sino alla regione di Kherson, nel centro-sud. Comprende perciò un territorio molto più vasto del Donbas – la regione alla quale la Russia aveva detto di voler limitare le sue operazioni, dopo essere stata costretta a ritirarsi dalla regione di Kyiv. I due eserciti in guerra combattono due guerre diverse. I russi martellano il territorio con l’artiglieria, poi tentano la conquista dei centri abitati quasi interamente distrutti. Gli ucraini, da parte loro, colpiscono depositi di armi e rifornimenti delle truppe russe, per impedire la loro avanzata.
Le conquiste territoriali sono minime, da entrambe le parti. Sotto il profilo qualitativo, però, la guerra sembra volgere in favore dell’Ucraina. E’ stato decisivo, in particolare, l’arrivo dagli Stati uniti dei lanciamissili multipli mobili HIMARS e di altre unità simili, molto precise e di maggior gittata. Questi sistemi hanno permesso agli ucraini di annientare decine di depositi di munizioni e centri logistici nevralgici dell’esercito invasore. L’esercito ucraino ha distrutto o danneggiato vie di comunicazione essenziali per il rifornimento delle truppe russe intorno a Kherson. In particolare, hanno reso impraticabile il celebre ponte di Antonivka, sul fiume Dnipro.
Grazie alla maggiore efficacia della risposta ucraina, l’intensità degli attacchi di artiglieria russi si è ridotta. Inoltre, nella città e nel territorio di Kherson è presente un’attiva resistenza partigiana ucraina, che intralcia e rallenta le azioni dell’amministrazione russa di occupazione. Da segnalare, in questi giorni, l’uscita del giornalino «La voce del partigiano.» Viene distribuito clandestinamente nelle case e diffonde informazioni alla popolazione di Kherson. In questa regione i russi hanno tagliato Internet, televisione e ogni altro mezzo di informazione ucraino e internazionale. Gli abitanti possono connettersi solo a reti russe. Suscita preoccupazioni, intanto, la situazione nella centrale nucleare di Zaporižžja, sotto controllo russo.
Il comunicato di Amnesty International
In merito alla condotta del conflitto, a inizio agosto ha fatto discutere un comunicato di Amnesty International che accusa l’Ucraina di mettere in pericolo infrastrutture e popolazione civili. Di fatto, il testo accusa gli ucraini di usare i civili come scudi umani. Il comunicato ha suscitato meraviglia presso tutti gli osservatori. Del tutto inaccurato, contiene errori di analisi che denotano nessuna conoscenza del Paese e del conflitto in corso.
Il comunicato è stato compilato senza nemmeno consultare la sede ucraina di Amnesty. In conseguenza, la responsabile di Amnesty Ucraina si è dimessa, per essere stata scavalcata dall’organizzazione e per le evidenti incongruenze contenute nel comunicato. Amnesty si è poi scusata per aver pubblicato il testo, ma le scuse suonano come una pezza peggiore del buco.
Alcuni lettori mi hanno chiesto di commentare questo comunicato nel dettaglio: mi dispiace, non lo farò. Sono stufo di spiegare a chi mi legge le scemenze diffuse da persone e organizzazioni che fanno prevalere le loro fantasticherie ideologiche sulla realtà. Il comunicato sembra scritto apposta per sostenere tutte le tesi diffuse da Mosca a giustificazione della guerra. La propaganda russa lo ha sfruttato a proprio favore senza freni.
Per gli errori di sostanza e le debolezze probatorie che contiene, questo comunicato è una brutta pagina della storia di Amnesty International. Il lavoro di questa organizzazione può suscitare perplessità sotto diversi profili, ma ha anche dei meriti.
Gli obiettivi dei russi e degli ucraini
Durante un recente viaggio in Africa, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ha affermato che la guerra in Ucraina non finirà con la conquista del Donbas. Nulla di nuovo, per chi conosce i progetti del Cremlino e la sua strategia per l’Europa. Pochi giorni dopo, il ministro della difesa russo, Sergej Šojgu, ha aggiunto a chiare parole che l’obiettivo di Mosca è ricostruire l’Unione sovietica. Anche questa dichiarazione non è una novità.
L’obiettivo a lungo termine dei russi è noto e non è cambiato. Mosca intende conquistare i territori che furono dell’Unione sovietica e dell’Impero russo; quindi estendere la propria influenza politica sull’Europa, sino all’Atlantico. Dichiarazioni diverse da parte di funzionari russi, civili o militari, indicano solo mutamenti di tattica a breve termine o sono semplici escamotage di comunicazione.
Da parte ucraina, invece, l’obiettivo più immediato sembra la riconquista della regione di Kherson. L’obiettivo è prioritario per due ragioni. La prima è che il maggior numero di truppe russe, in questo momento, è concentrato nel Donbass, qualche centinaio di chilometri a est. Sul fronte sud i russi hanno meno capacità, ulteriormente fiaccate dagli attacchi delle settimane recenti. La seconda ragione è che il territorio di Kherson apre l’accesso al Mar Nero e alla penisola della Crimea. Quest’ultima, va ricordato, è territorio ucraino, sebbene sia illecitamente governata di fatto dalla Russia da otto anni.
Per contrastare questo piano degli ucraini, i russi stanno spostando truppe verso Kherson, frenati però dall’esercito ucraino, che colpisce i convogli di rincalzo. Si attende una ripresa a breve dell’attacco russo a nord di Kherson. Le prossime settimane diranno come si evolverà questo fronte.
Sul fronte nord-est, gli ucraini hanno registrato la riconquista di alcuni villaggi in direzione nord, verso la città di Izium. L’esercito russo, dopo la conquista delle città di Sjevjerodonec’k e Lysyčans’k, non consegue avanzate significative ormai da settimane. La guerra in Ucraina finirà quando tutto il territorio sarà tornato sotto sovranità ucraina, ha segnalato il presidente Volodymyr Zelenskyj.
GUERRA IN UCRAINA: L’ACCORDO SUL GRANO
S’inserisce qui la valutazione dell’accordo internazionale che deve permettere all’Ucraina di esportare le grandi quantità di grano che giacciono nei suoi magazzini. La ripresa di questo commercio permette all’Ucraina di recuperare una fonte di reddito e previene crisi alimentari nei Paesi che contano sulle sue forniture. Contrariamente a ciò che viene riferito dai media, l’accordo non è stato stipulato fra Russia e Ucraina. Le parti sono quattro: Russia, Ucraina, Turchia e Nazioni unite.
Vi sono due accordi distinti, scritti in modo che Russia e Ucraina non dovessero firmare lo stesso documento. A buona ragione, l’Ucraina rifiuta di sottoscrivere qualunque intesa con la Russia. Oltre a evidenti ragioni di opportunità, per l’Ucraina firmare un accordo con la Russia significherebbe riconoscere a Mosca una legittimità giuridica sul proprio territorio. L’accordo sul grano deve essere salutato dal punto di vista umanitario, ma non rappresenta un atto di pacificazione o avvicinamento tra le parti in conflitto.
Non è un caso, che la Russia abbia firmato l’accordo proprio in queste settimane. Alexandra Prokopenko, analista del Centro studi Carnegie elenca una serie di motivi che hanno indotto Mosca a questa mossa (>qui l’analisi). La Russia ha interessi economici interni: la ripresa delle esportazioni ucraine sblocca anche le esportazioni russe e favorisce l’industria agricola di Mosca. Pur se in modo non ufficiale, nel contesto dell’accordo sul grano alcune sanzioni occidentali che colpivano questo settore russo sono state mitigate. Altro motivo che ha indotto la Russia a cedere sul grano è il timore di disordini sociali in Paesi del Medioriente strategici anche per Mosca.
Accordo sul grano: un altro motivo determinante
Aggiungo un terzo motivo, meno notato dagli osservatori eppure decisivo, per la firma dell’accordo sul grano. L’arrivo dei lanciamissili americani HIMARS, già citati sopra, ha modificato gli equilibri militari sul Mar Nero a favore dell’Ucraina. La Russia ha dovuto ritirare le sue unità navali che stazionavano sulle coste occidentali della Crimea, intorno a Sebastopoli, per portarle fuori dal raggio d’azione delle nuove armi ucraine.
In questo modo, il controllo della Russia sullo specchio di mare prospiciente Odessa si è indebolito e il traffico navale può riprendere, almeno in parte. I russi possono ancora lanciare missili sulla città. Lo hanno fatto, con un’azione dimostrativa, proprio pochi giorni dopo aver firmato l’accordo sul grano. Il loro controllo navale su quella porzione di mare, però, è compromesso. Gli ucraini, da parte loro, hanno accettato l’accordo sul grano perché sicuri di poter difendere con più efficacia le loro coste.
Oggi Mosca non ha più molto da perdere, se acconsente al transito dei cargo civili che trasportano grano: maschera come atto di buona volontà una parziale sconfitta militare e politica nelle acque del Mar Nero occidentale. E’ escluso che la Russia abbia permesso la ripresa dell’esportazione dei cereali ucraini per mero spirito umanitario. Lo dimostra il fatto che Mosca, mentre con una mano firma l’accordo, con l’altra continua a bombardare e incendiare i campi di grano in altre regioni dell’Ucraina, per colpire l’economia del Paese.
GUERRA IN UCRAINA, FINIRÀ A CAUSA DELLE SANZIONI?
I pacchetti di sanzioni economiche contro la Russia si moltiplicano, ma la guerra non si ferma. Ciò fa dire ai propagandisti che le sanzioni sono inutili e danneggiano più noi occidentali che la stessa Russia, perciò andrebbero revocate.
Le sanzioni sono un istituto del diritto internazionale il cui scopo è punire uno Stato che viola le regole di convivenza planetaria. Le sanzioni possono essere decise dalle Nazioni unite o da singoli Paesi. Non ha fondamento giuridico, l’argomentazione secondo cui le sanzioni contro la Russia sarebbero illegali perché non decise dall’ONU, ma da singoli Stati (in particolare Stati uniti e Unione europea). Le persone e gli enti colpiti dalle sanzioni, inoltre, hanno diritto di ricorso, se ritengono che le sanzioni siano illegittime. Alcuni soggetti russi si sono già avvalsi di tale facoltà.
Le sanzioni economiche internazionali non hanno lo scopo primario di fermare la guerra. Esse hanno la stessa finalità delle sanzioni del diritto penale: devono causare all’autore di un reato un male proporzionato a quello sofferto dalla vittima; devono scoraggiarlo dal ripetere il reato e devono suscitare timore in tutta la comunità, poiché tutti devono sapere che chi non rispetta la legge subisce le stesse conseguenze.
Le sanzioni decise contro la Russia, pertanto, devono arrecare a Mosca un danno proporzionale a quello che sta soffrendo l’Ucraina; devono scoraggiare la Russia dal proseguire l’aggressione e dall’attaccare altri Stati; infine, devono mostrare a tutto il mondo che chi scatena una guerra contro un altro Stato subisce conseguenze altrettanto disastrose.
Come reagisce l’economia russa
Il danno recato dalla guerra combattuta sul terreno si produce subito, mentre il danno causato dalle sanzioni emerge più lentamente. Per questo motivo, è facile pensare che le sanzioni siano inutili. Molti studi, ormai, dimostrano il contrario: le sanzioni stanno danneggiando l’economia russa in modo grave e duraturo. Rimando, su tutti, al recentissimo studio pubblicato dall’università di Yale, che riporta dati oggettivi documentati e convincenti, >qui.
La Russia afferma che sostituirà il commercio con l’Occidente, impedito dalle sanzioni, stringendo nuovi accordi commerciali con Cina, India e altri Paesi in via di sviluppo. Questa alternativa non compensa le perdite causate dalle sanzioni occidentali. Mosca non riesce a vendere a quei Paesi le stesse quantità di gas e petrolio che vendeva all’Europa. Se anche vi riuscisse, vi è un altro aspetto decisivo: il contenuto di qualità e tecnologia delle importazioni da Cina e India non è paragonabile a quello dei prodotti occidentali.
A causa delle sanzioni, la Russia è scivolata nella stessa condizione nella quale si trovò l’Unione sovietica alla fine del periodo staliniano. Negli anni Cinquanta, l’ingegner Sergej Alekseevič Lebedev era riuscito a convincere Nikita Chruščëv e il Partito comunista sovietico ad abbandonare i calcolatori analogici elettromeccanici, per puntare sui computer digitali, che allora funzionavano a valvole termoioniche. In quegli anni, il progresso tecnologico sovietico era ancora in grado di concorrere con quello occidentale. Si preparava il più grande successo tecnico sovietico, il lancio del primo uomo nello spazio, nel 1961.
Unione sovietica: comincia il ritardo tecnologico
Accadde, però, che per le rigidità dell’economia socialista pianificata, per le gelosie e le inadeguatezze dei funzionari di partito, l’Unione sovietica non riuscì a proseguire sulla via del progresso, quando dalle valvole termoioniche si passò ai transistor, e poi quando comparvero i primi microprocessori. Il partito comunista commise un errore politico grave: con grande delusione dell’ingegner Lebedev, decise di importare i computer occidentali per smontarli e copiarli.
Come aveva ammonito Lebedev, con questa scelta l’Unione sovietica perse la capacità di sviluppare propria tecnologia informatica. Questa mancanza ebbe gravi ricadute sulle potenzialità dell’industria e aggravò l’arretratezza del Paese. Negli anni Sessanta, la contrapposizione politica tra Occidente e blocco comunista cominciò a crescere e gli Stati uniti vietarono l’esportazione di tecnologia verso l’Unione sovietica. Gli ingegneri di Mosca fecero sempre più fatica a comprare computer americani da copiare. D’altra parte, i calcolatori diventavano sempre più complessi e difficili da riprodurre.
La tecnologia sovietica accumulò sempre maggior ritardo. Negli anni Ottanta, il suo distacco da quella occidentale era ormai irrecuperabile. Lo sfasamento nello sviluppo, unito alle rigidità dell’economia socialista e alla stagnazione politica, causò la progressiva incapacità del sistema sovietico di soddisfare le esigenze dei cittadini, anche le più elementari. Nel 1991 l’Unione sovietica crollò, tra supermercati vuoti, autoveicoli arrugginiti e povertà dilagante.
Guerra in Ucraina, quando finirà? L’innovazione, nervo scoperto di Mosca
Le sanzioni economiche di oggi colpiscono la Russia su un elemento chiave dello sviluppo e dell’esistenza stessa di uno Stato: la capacità di innovazione. Anziché importare dall’Europa automobili Mercedes, BMW o Maserati, la Russia può importare automobili cinesi o indiane – Queste, però, sono costruite imitando modelli occidentali e applicando uno sviluppo che avviene negli Stati uniti e in Europa.
La guida dell’innovazione resta l’Occidente: l’innovazione non può avvenire in società autoritarie o fortemente squilibrate, perché presuppone libera circolazione delle idee, delle persone e dei capitali; richiede meccanismi sociali che permettano di far studiare i giovani talenti indipendentemente dalla loro ricchezza familiare, deve contare su una ragionevole stabilità sociale e politica. Queste condizioni non esistono in Cina, in India e in nessun Paese in via di sviluppo.
In mancanza di innovazione, la Russia si condanna alla retroguardia. E’ costretta a puntare sulla mobilitazione dei cittadini verso obiettivi demagogici, come fece l’Unione sovietica. Negli anni Cinquanta, l’Unione sovietica riuscì a svilupparsi grazie alla mobilitazione della popolazione, galvanizzata dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale e spinta dal regime a dare il meglio per ottenere il trionfo del comunismo sul capitalismo. Poi, la popolazione capì che il comunismo perdeva. I negozi erano vuoti e bisognava restare ore in coda per acquistare prodotti che non corrispondevano alle aspettative moderne. Intanto, l’Occidente capitalista progrediva.
La crisi morale e la fine dell’Unione sovietica
Cominciò allora la lunga crisi morale che fu la causa profonda del crollo dello Stato sovietico. Racconta Gennadij Burbulis, consigliere di Boris El’cin e poi segretario di Stato della Russia post-sovietica, che nell’agosto 1991, dopo il colpo di Stato contro Michail Gorbačëv, l’Unione sovietica non esisteva più nell’animo dei suoi cittadini, anche se esisteva ancora sulle carte geografiche.
Quattro mesi dopo, la sera del 25 dicembre 1991, quando sul Palazzo del Senato del Cremlino fu ammainata la bandiera sovietica per sostituirla con quella russa, nessun cittadino si trovò sulla Piazza Rossa per assistere a quel rito, che cancellava dalla Storia, nell’indifferenza generale, uno Stato incapace di corrispondere alle aspirazioni dei suoi abitanti.
L’Unione sovietica aveva accumulato decenni di ritardo sul progresso tecnologico occidentale. La situazione della Russia di oggi è ancora più grave. In trent’anni, la Russia non ha recuperato il distacco sovietico, se non in minima parte. Le sanzioni imposte a Mosca per la guerra in Ucraina disconnettono dall’innovazione una Russia già in grave ritardo, che pende dalle labbra della tecnologia occidentale.
Guerra in Ucraina: quando finirà la capacità di mobilitazione di Putin
Putin, con la sua la propaganda, ha mobilitato la popolazione verso la ricostruzione dell’Unione sovietica e dell’Impero russo. E’ stato in gran parte seguito. Finché l’entusiasmo per questo sogno durerà, i russi sopporteranno di viaggiare su automobili antiquate, di rinunciare ai comfort e alle opportunità del progresso. Questa fase può durare anni.
Uno Stato esiste sin quando è in grado di soddisfare le aspirazioni dei suoi cittadini. Ci si chiede a volte se la popolazione russa scenderà in piazza, contro Putin e la guerra. In realtà, come avvenne per l’Unione sovietica, la crisi morale della popolazione può causare il dissolvimento dello Stato anche senza rivoluzioni di piazza. Lo Stato cessa di esistere dentro i suoi cittadini. Il governo può urlare per imporre i suoi ordini, ma è una voce che grida nel deserto.
Se la guerra continua e le sanzioni occidentali vengono mantenute, Vladimir Putin (o il suo successore) potrà trovarsi nella stessa condizione in cui si trovò Michail Gorbačëv nel 1991. Seduto dietro la scrivania di presidente di uno Stato che ha smesso in silenzio di esistere nell’animo dei suoi cittadini, senza che il presidente stesso se ne facesse una ragione.
Il vero obiettivo delle sanzioni
Le prossime generazioni di russi pagheranno le conseguenze delle scelte di oggi, quando la guerra in Ucraina finirà e dovranno ricostruire il loro Paese abbattuto dal conflitto e dalle sanzioni. Si spera che ciò basti a convincerli a non ripeterle in futuro: questi sono gli obiettivi primari delle sanzioni. Le sanzioni possono anche far cessare o rallentare la guerra, perché lo Stato aggressore perde le risorse economiche necessarie. Questa, però, è una ricaduta secondaria, augurabile ma non immediata.
E’ falso e intellettualmente disonesto, far credere che le sanzioni contro la Russia siano inefficaci perché la guerra in Ucraina non finirà a causa di esse, o non solo. Per fermare la guerra vi è un solo modo: cacciare l’esercito invasore, applicando una forza militare contraria e superiore.
Finché la Russia non si sgretolerà moralmente, Putin accetterà di trattare solo quando lo deciderà lui per propria convenienza, oppure perché si troverà di fronte a una resistenza militare prevalente. L’esempio dell’accordo sul grano è lampante. Se l’Ucraina non avesse ricevuto i nuovi lanciamissili statunitensi, i russi non avrebbero firmato l’accordo, si sarebbero tenuti stretto il controllo navale sul Mar Nero.
GUERRA IN UCRAINA, QUANDO FINIRÀ: LA POSIZIONE DELLA CHIESA
A oltre cinque mesi dall’inizio della guerra su larga scala, si chiarisce dalle contraddizioni la posizione della Chiesa cattolica, che non è senza importanza. Nei primi giorni, il Papa esprimeva prevedibili parole di condanna. Definiva «chierico di Stato» il patriarca della Chiesa ortodossa russa Kirill, che sostiene il regime di Putin e la sua guerra.
Il 6 marzo 2022, però, Monsignor Carlo Maria Viganò diffondeva un lungo comunicato in cui sosteneva le tesi della Russia, con ampia e dettagliata motivazione (>testo). Monsignor Viganò non è un prelato qualunque: è un diplomatico ecclesiastico, già nunzio apostolico (ambasciatore) della Santa sede negli Stati uniti. Qualche lettore cattolico mi ha fatto notare che Monsignor Viganò è un anziano presule in pensione, non nuovo a dichiarazioni originali, al quale non bisogna dare troppa retta.
Non so se sia vero, ma guardo ai fatti. Monsignor Viganò ha pubblicato il suo panegirico a giustificazione di Putin sulla propria carta intestata, con le insegne vescovili. Lo ha datato «Dal Vaticano, 6 marzo 2022.» Il suo scritto è stato ripubblicato da numerose testate cattoliche. Nessuno lo ha smentito. Sorge il sospetto che le dichiarazioni di condanna pronunciate dal Papa contro la guerra siano di facciata, mentre la vera posizione della Chiesa cattolica sia in realtà quella espressa da Viganò.
Il 15 aprile, quando i crimini compiuti dalla Russia in Ucraina erano ormai fatto notorio, il Papa insisteva affinché una donna ucraina e una russa portassero insieme la Croce, durante la Via crucis teletrasmessa da Roma il Venerdì Santo. L’idea suscitava opposizioni forti. L’ambasciata ucraina in Italia e quella presso la Santa Sede, l’Associazione cristiana degli ucraini in Italia e i vescovi ucraini comunicavano al Vaticano che il gesto era sgradito e inopportuno.
La Via Crucis della discordia
Calpestando tutti, inclusi i cadaveri che proprio in quei giorni emergevano dalle fosse comuni di Buča, il Papa non rinunciava a far sfilare insieme sotto la Croce russi e ucraini. Manifestava così di considerare vittima e carnefice sullo stesso piano. Anche in questo caso, non è mancato chi ha fatto notare che la scelta del Papa aveva motivazioni teologiche, non politiche.
Nessuno ha spiegato, però, in base a quale arzigogolo teologico una madre ucraina che vede sua figlia violentata a morte da un soldato russo, mentre suo marito muore in guerra, deve accettare la beffa di un Papa che mette russi e ucraini a sfilare insieme sotto la Croce, come se entrambi fossero colpevoli di qualcosa, non l’uno aggressore e l’altro aggredito.
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Con il passare dei mesi, il Papa stesso e altri uomini di Chiesa sono usciti sempre più allo scoperto e hanno confermato che la posizione della Chiesa sulla guerra è proprio quella espressa da Monsignor Viganò nel suo comunicato, ossia coincide con le pretese della Russia. In un lungo articolo-intervista sul quotidiano italiano «Il Corriere della Sera» del 3 maggio (>testo integrale) e ancor più chiaramente in un’intervista con il gesuita Antonio Spadaro, uscita su «La Stampa» il 14 giugno (>testo integrale), il Papa afferma apertamente che di fronte alla guerra non vuole distinguere tra buoni e cattivi, perché, a suo dire, il conflitto è provocato dall’espansione a est della NATO, che «abbaia» alle porte della Russia. Con queste dichiarazioni, il Papa si allinea definitivamente alle posizioni di Vladimir Putin.
Guerra in Ucraina: quando finirà, se anche la Chiesa segue Putin?
Il 16 luglio, sul quotidiano dei vescovi italiani compare in prima pagina un editoriale (>testo integrale) il cui autore afferma che l’Italia dovrebbe negare a Finlandia e Svezia l’accesso alla NATO. Secondo il giornalista, la guerra è in realtà un conflitto tra Russia e Stati uniti. Per questo motivo, il mondo dovrebbe costituire una zona neutralizzata tra Mar Baltico e Mar Nero, per rassicurare Mosca.
Ancora una volta, la tesi espressa in tanta evidenza dal giornale dei vescovi coincide totalmente con la visione di Vladimir Putin. In particolare, le affermazioni contenute nell’articolo de «l’Avvenire» corrispondono in toto alle richieste che la Russia aveva espresso con tono ricattatorio nel dicembre 2021, prima di scatenare la ripresa della guerra: rendere neutrale l’Europa centrale dal Baltico al Mar Nero e definire zone d’influenza tra Russia e Stati uniti.
Di fronte a queste ripetute prese di posizione del Papa e altri organi ecclesiastici di primo piano, bisogna ammirare il coraggio con il quale molti cattolici difendono la loro Chiesa, anche di fronte all’evidenza. Chi critica il Papa non ha capito le sue parole, non ha letto tutto o non ha letto bene; chi mette in discussione la posizione della Chiesa sulla guerra ignora qualche passo biblico, il dettato di un certo manuale di teologia o qualche imperscrutabile cavillo di dottrina della fede, oppure è prevenuto verso la religione. Insomma, è tutto il resto del mondo che non ha capito niente.
Guerra in Ucraina: «I fatti sono la cosa più ostinata di questo mondo»
Sarà che non capiamo nulla, ma «i fatti sono la cosa più ostinata di questo mondo,» scrive Bulgakov ne «Il Maestro e Margherita.» Se un Papa rilascia interviste a giornali quotidiani di prima fila, non dice parole a caso, bisogna prenderlo sul serio. Se un arcivescovo cattolico scrive quaranta pagine di precisa e motivata presa di posizione a sostegno delle ragioni di Vladimir Putin, le diffonde sulla propria carta intestata di gerarca ecclesiastico e le data «dal Vaticano,» quello scritto non è il delirio di un monsignore annebbiato dall’età, a maggior ragione se non viene smentito.
Se sul giornale dei vescovi italiani compaiono in prima pagina articoli che giustificano le richieste di Vladimir Putin, questi articoli non sono espressioni personali di singoli cattolici. A parlare sono voci di prima grandezza e fogli ufficiali della Chiesa cattolica. Nel frattempo, anche il Papa non si preoccupa più di nascondersi dietro le prudenze curiali. Durante l’Angelus di domenica 31 luglio, ha ripetuto che gli ucraini dovrebbero trattare con la Russia, «se si guarda la realtà obiettivamente.»
Questa tesi è facilmente condivisibile in teoria, ma messa in pratica significa che gli ucraini devono accettare la prepotenza e l’occupazione di Mosca. E’ vero che il Papa ha definito il patriarca ortodosso russo Kirill un «chierichetto di Putin» e ha lodato l’eroismo degli ucraini che difendono il loro Paese. Restano ipocrite parole consolatorie, però, se poi Bergoglio giustifica l’invasione russa.
Le ragioni del pensiero del Papa
La posizione di Papa Bergoglio sulla guerra ha un radicamento profondo. Il Papa rappresenta tesi populiste. Ci aiuta a spiegare il significato di questo aggettivo il professor Loris Zanatta, stimato conoscitore dell’America latina e autore di numerosi studi, tra i quali il recente: «Il populismo gesuita: Peron, Fidel, Bergoglio» uscito per l’editore Laterza (>qui). Chi vuole trova una sintesi della tesi di Loris Zanatta in una bella lezione-intervista in lingua spagnola disponibile sul canale YouTube del giornalista italiano Alberto de Filippis (>qui il video).
La testi del professor Zanatta è fondata e molto convincente – anche se sembra avere più diffusione in America Latina che in Italia – ed è stata formulata prima dei fatti in corso. Secondo Zanatta, il populismo di Bergoglio affonda le sue radici nell’idea di popolo coltivata nelle missioni gesuite in America latina, che ha lasciato tracce in tutta la storia del continente, sino ai nostri giorni. In quella visione, il popolo è inteso come unità mitica originaria, che vive in armonia, pace e felicità, legato da un destino comune.
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Questa unità originaria è stata corrotta lungo la Storia e oggi non c’è più. L’illuminismo ha introdotto il pluralismo delle idee; il liberismo e il capitalismo hanno portato la competizione economica tra ricco e povero. Il populismo, allora, è la lotta per ricostruire quella presunta unità primitiva del popolo. Un’unità fondata su un pensiero religioso e politico unico e sull’assenza di competizione. Per i populisti, infatti, la misura della vita sociale è l’Uomo povero e semplice.
In una parola, il populismo è la lotta contro la società aperta di tipo occidentale e contro le sue espressioni: il pluralismo, il liberismo e il capitalismo, che impediscono al popolo di ritrovare la sua felicità primitiva.
Il Papa precisa: «popolarismo» o «populismo inclusivo»
Il Papa stesso ha precisato la sua posizione su questo punto, intervenendo in lingua spagnola il 15 aprile 2021 durante il convegno «A politics rooted in the people» («Una politica radicata nel popolo»). L’incontro era organizzato dal Centro di teologia e comunità di Londra con numerose organizzazioni dedite all’assistenza di popolazioni svantaggiate (>qui il sito della manifestazione). Il Papa si è richiamato al suo recente libro «Soñemos juntos,» uscito in italiano come «Ritorniamo a sognare» (>qui).
Il Pontefice afferma che il suo non è comune populismo, ma populismo inclusivo. Riprende la definizione di Angus Ritchie, che è direttore dello stesso Centro di teologia londinese. Il Papa definisce però il populismo inclusivo «popolarismo,» ma questa denominazione – lo dice il Papa stesso – esprime il medesimo concetto.
Le differenze tra populismo, populismo inclusivo e popolarismo, ascoltando Bergoglio, hanno poco effetto concreto e non ci riguardano qui. Il problema, infatti, non sta nella definizione di populismo, ma in quella di popolo. Bergoglio intende per popolo non l’insieme dell’umanità, ma esplicitamente i poveri, gli emarginati, gli abitanti delle periferie del mondo. Il Papa esorta le diocesi cattoliche a collaborare con i «movimenti popolari» che aiutano a dare ai poveri una vita degna. Ma perché non li chiama con il loro nome – poveri, emarginati – ma li definisce «popolo?»
Cos’è il «popolo» dei populisti
Perché, nella visione populista, la povertà non è uno stato passeggero di disagio, dal quale il povero può riscattarsi. Nelle parole del Papa e di tutti i populisti, la povertà, l’emarginazione, la semplicità sono la condizione essenziale per essere popolo.
Se il povero smette di essere povero, smette anche di essere popolo e diventa anti-popolo. Accetta le regole del liberismo, che gli permettono di raggiungere il benessere economico; beneficia del pluralismo delle idee, che gli fa mettere in discussione i dogmi della tradizione e rinnegare la sua condizione di ingenua semplicità. Accetta l’insieme dei valori della società aperta e diventa un elemento di rottura dell’unità popolare primitiva.
Mette i brividi constatarlo, ma la definizione che Bergoglio dà del suo populismo descrive un’idea di popolo identica a quella predicata da Aleksandr Dugin nei suoi seminari sulla Quarta teoria politica, ispiratrice delle azioni di Vladimir Putin e del suo regime. Un popolo-comunità legato indissolubilmente a presunti valori tradizionali e che cammina unito verso un obiettivo di redenzione.
Per la religione, la redenzione è il cammino verso il regno di Dio. Per Dugin, l’unità si realizza in un luogo «né di qua ne di là» che il politologo russo spiega ispirandosi dal Dasein di Heidegger. In questo contesto, per Dugin, il ruolo della Chiesa è mantenere il popolo legato ai valori tradizionali, che lo Stato impone con la legge.
Bergoglio, come Dugin, mette in rilievo l’importanza della cultura e della tradizione popolare. Un’affermazione all’apparenza innocua, anzi molto umana e rispettosa, che il Papa ha ripetuto ancora di recente durante un suo viaggio in Canada, dinanzi ai nativi americani. In realtà, sia per Dugin sia per Bergoglio, i valori tradizionali diventano la gabbia in cui il popolo resta chiuso, condannandosi alla subalternità.
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Guerra in Ucraina: non finirà, se si giustifica l’autoritarismo
L’elemento unificante di quelle culture è, per il Papa, il messaggio cristiano. Se ne desume che la diversità delle culture popolari può essere accettata solo finché non contraddice il dettato della Chiesa. Per Dugin, si può accettare la varietà delle lingue e delle nazioni, ma l’elemento unificante e originario è quello russo. Perciò, le culture diverse possono esistere, ma non possono contraddire il Russkij mir, il mondo russo. Devono sottomettervisi come condizione naturale per la loro esistenza.
Si rispettano le diversità, finché queste accettano di esistere «a sovranità limitata,» avrebbe detto Leonid Brežnev. Il proclamato rispetto della loro identità, perciò, è di pura facciata. L’elemento unificante, che sia la fede cristiana o il mondo russo di Dugin, non è solo un luogo politico. Esprime la superiorità morale in cui il popolo ritrova la sua unità originaria. La chiesa e il regime politico governano il popolo in nome di questi valori tradizionali; in questi valori trovano la legittimazione morale della loro autorità, perciò non devono essere contestati.
In conseguenza, la società dei populisti non può che essere autoritaria, in uno Stato moralista. Chi contrasta l’unità del popolo, perché si ispira al pluralismo delle idee, al liberismo sociale ed economico; chi vuole affrancarsi dalla povertà per tendere al benessere, non è un soggetto politico con il quale confrontarsi in una normale dialettica sociale; è un corruttore morale, un nemico del popolo e della sua cultura fondata sull’unità e sulla povertà.
«Il disprezzo della cultura popolare è l’inizio dell’abuso di potere:» queste sono parole del Papa. Significa che ogni tentativo di uscire dal circolo vizioso tra povertà e cultura popolare è classificato come abuso di posizione dominante. L’introduzione della competizione, della differenza tra ricco e povero, la valorizzazione del più intelligente rispetto al meno dotato, che sono elementi indispensabili del progresso e del riscatto dalla miseria, per i populisti sono atti di prevaricazione e di violenza. E’ la stessa concezione che troviamo nei tanti partiti populisti sorti in questi anni in Europa.
Il populismo del Papa nella sua proiezione internazionale
Aleksandr Dugin riprende la stessa impostazione di Papa Bergoglio e la proietta sul piano internazionale, quando parla di economia nel contesto della sua Quarta teoria politica. Rifacendosi al sociologo Immanuel Wallerstein, Dugin vede il mondo diviso in tre poli: un polo in cui si concentra la ricchezza, coincidente con il mondo liberale e capitalista anglosassone; un polo periferico in cui si concentra la povertà e un polo di mezzo, semiperiferico, coincidente con i Paesi in via di sviluppo, tra i quali la stessa Russia.
Secondo Dugin, i Paesi del secondo polo – Russia, Cina, India… – dovrebbero unirsi, per costituire un’alleanza economica e militare capace di inglobare il terzo polo dei più poveri e sconfiggere il polo dei più ricchi. Si osservi bene: il secondo polo deve unirsi non per progredire a sua volta e portarsi allo stesso livello di benessere del primo, magari superarlo. Deve distruggere, subordinare il mondo più avanzato. E’ questo, che con la forza del suo progresso e della sua economia rompe l’unità e la moralità dei più poveri e meno progrediti.
Se il secondo e terzo polo progredissero per diventare come il primo, perderebbero la loro unità e superiorità morale. Riportate sul piano internazionale, sono le stesse parole del Papa: i poveri devono poter vivere «una vita degna di definirsi umana, capace di coltivare la virtù e di forgiare nuovi vincoli» – non essere liberati dalla povertà. Altrimenti, perderebbero la loro superiore moralità di popolo.
Da Dugin e Bergoglio ai discorsi di Putin e Kirill
Questa visione si riflette puntualmente nei discorsi di Vladimir Putin e del patriarca russo Kirill. Quando il presidente russo parla dei Paesi oggi indipendenti che furono parte dell’Unione sovietica, non li cita solo come popoli irredenti dal punto di vista politico. Ne parla con disprezzo morale e afferma che le attività della Russia per riconquistare il loro controllo e ricostruire l’antica Russia hanno lo scopo di sottrarli alla corruzione dei costumi portata in essi dall’Europa e dagli Stati uniti, dal liberismo sociale ed economico dell’Occidente. Il patriarca Kirill, da dietro il suo abito religioso, è ancora più esplicito su questa tesi.
Conquistare l’Ucraina e gli altri Paesi ex sovietici alla sfera di influenza russa non significa solo ricondurli all’unità delle loro origini, secondo Putin e Kirill. Vuol dire riportarli in una sfera moralmente superiore all’Occidente corrotto. La guerra in Ucraina finirà quando avrà raggiunto questo obiettivo morale. Il populismo del Papa e quello di Dugin, che si riflette nel regime di Vladimir Putin e nella Chiesa ortodossa di Kirill, hanno la stessa base concettuale.
Per questo motivo, il Papa può solo approvare il progetto di Putin: non può approvare apertamente la guerra, ma gli obiettivi della guerra sì. Ecco perché, secondo il Papa, gli ucraini devono arrendersi alle pretese dei russi e dialogare con l’invasore: russi e ucraini devono farsi perdonare entrambi. I russi, perché usano la violenza; gli ucraini, perché aspirano al pluralismo della società europea, al liberismo e ai valori occidentali incarnati dall’Europa, contro la presunta unità originaria dei valori popolari offerta loro dal Russkij mir e predicata da Putin nei suoi deliranti articoli sulla storia russa.
Cosa «abbaia» ai confini con la Russia?
Quando il Papa parla della NATO che «abbaia» ai confini della Russia non si riferisce ai cannoni. La NATO non abbaia, nemmeno il Papa ha saputo citare casi concreti in cui l’esistenza della NATO e il suo allargamento a est costituiscano una causa di giustificazione per la guerra. Per il Papa, nella NATO «abbaiano» i valori occidentali, antipopolari. Gli ucraini si ribellano a Putin, che vuole sottrarli alla corruzione dell’Occidente: certo, bisogna riconoscere che lo fanno con eroismo, dice il Papa – ma sbagliano.
Devono trattare con la Russia e accettare di camminare mano nella mano con l’aggressore verso la redenzione, come le due donne, russa e ucraina, che hanno retto insieme la Croce nel cinico duetto della Via crucis. Di fronte alla guerra, il Papa può evitare lo sforzo di distinguere tra buoni e cattivi, perché secondo lui sono cattivi entrambi, ciascuno a modo proprio.
L’effetto pratico di queste considerazioni è che ancora una volta il mondo affronta una guerra con una Chiesa che non è capace di prendere una posizione morale chiara contro la dittatura che l’ha causata: ne disapprova gli eccessi, ma ne condivide le ragioni di fondo.
Era già accaduto con il fascismo e con il nazismo. Lo stesso si è ripetuto con le aderenze tra Chiesa cattolica e dittature sudamericane, con il franchismo in Spagna e con il regime di Salazar in Portogallo; con le chiese cristiane vicine alle dittature del Medio oriente, dall’Iraq alla Siria.
Certo, ci furono i preti che salvarono gli ebrei dall’Olocausto, quelli che rischiarono la vita per stare vicino ai dissidenti dei regimi sudamericani; esiste un padre Paolo Dall’Oglio che viene rapito e scompare in Siria, perché si oppone al regime e a alle sue complicità ecclesiastiche; oggi ci sono parroci impegnati nell’aiuto ai profughi ucraini. La Storia, però, non la fanno questi uomini di buona volontà, purtroppo.
GUERRA IN UCRAINA, QUANDO FINIRÀ: GLI EVENTI IN ITALIA
Non entro nel dettaglio dell’ennesima relazione anomala tra politici italiani e Russia, emersa grazie a un’inchiesta del giornalista Iacopo Jacoboni pubblicata dal quotidiano «La Stampa» il 28 luglio (>qui l’inchiesta). Funzionari russi avrebbero influito su politici italiani allo scopo di provocare la caduta del governo Draghi.
Quando si parla di influenze russe sulla politica italiana ed europea, ci si può riferire a molti fatti: relazioni tra partiti e uomini politici, passaggi di denaro, campagne di disinformazione sui media. Che la Russia intervenga nella politica italiana ed europea per tutelare i propri interessi è un’evidenza estrinseca, ormai da anni. Sono stati scritti libri (tra i quali il mio >Il progetto della Russia su di noi), vi sono audizioni in Parlamento (tra queste, la mia del 6 agosto 2020, >qui il video), vi sono numerose e documentate inchieste giornalistiche. Nessun politico italiano, di nessun partito, può dire di non essere informato sulle relazioni anomale tra Italia e Russia e sul ruolo di Mosca in Europa.
Di queste influenze, purtroppo, non si troveranno prove dirette, salvo casi eccezionali. Esistono però indizi gravi, precisi e concordanti, perciò prove indirette, ma non per questo meno convincenti. Il punto debole sta nella possibilità di utilizzare queste prove. Il fatto che un partito politico governi non nell’interesse del proprio Paese ma nell’interesse di uno Stato estero dovrebbe suscitare scandalo e riprovazione nella popolazione. Eppure, sembra che gli elettori, non solo in Italia, non percepiscano la gravità di questi fatti.
Il punto debole delle democrazie occidentali
E’ difficile anche valorizzare le prove delle influenze russe dinanzi a un tribunale. Si pensa alle fattispecie di finanziamento illecito ai partiti. Lo scambio di influenze tra Russia ed Europa, però, è organizzato in modo da eludere le incriminazioni. I finanziatori occulti possono acquistare pubblicità per sostenere riviste che propagano un programma filorusso; possono sostenere fondazioni senza fini di lucro che fanno propaganda, ma che non hanno legami giuridici o personali con entità politiche.
Queste condotte possono passare del tutto inosservate e, se portate dinanzi a un giudice, difficilmente comporteranno la condanna dei loro autori, perché non costituiscono reato. Anche la contestazione dei reati di tradimento e corruzione ai danni dello Stato è destinata a scarso successo, in tali casi. Questo è il peggior punto debole delle democrazie occidentali, di fronte alle influenze ostili: la quasi impossibilità di colpirle giudiziariamente. Ovviare a questa debolezza richiederebbe un mutamento radicale di cultura e l’introduzione di fattispecie che sanzionino queste condotte con concrete conseguenze penali.
Non bisogna trascurare, poi, che molti propagandisti europei filorussi non hanno affatto bisogno di essere pagati o stimolati dalla Russia, per sostenere i suoi interessi. Agiscono per mettersi in evidenza di fronte a Mosca come collaboratori preferenziali del Cremlino. Sanno che ciò garantisce loro una rendita di voti in patria, presso soggetti invasati da ideologie autoritarie e fra parti di società interessate a buone relazioni con la Russia.
Un altro esempio sono i propagandisti italiani della Russia comparsi sugli schermi televisivi dall’inizio della guerra. Si tratta di accademici o di giornalisti che non hanno problemi economici. Mettersi in evidenza come sostenitori di Mosca e della sua guerra li retribuisce in termini di popolarità e soddisfazione del loro ego. La propaganda russa, in questi casi, si autoalimenta, senza bisogno di particolare interessamento da parte del Cremlino.
Cosa significa la caduta di Draghi in riferimento alla guerra
Per capire cosa significa la caduta del governo Draghi sul piano europeo e in riferimento alla guerra in Ucraina bisogna osservare come si forma la leadership in Europa. Negli Stati uniti, in Russia, in Cina, la leadership, cioè l’autorevolezza morale e materiale di comando, risiede nei governi delle capitali: Washington, Mosca, Pechino. La leadership europea, al contrario, non risiede a Bruxelles, ma si forma nelle capitali dei singoli Stati, particolarmente alcuni.
Se un certo numero di Stati-chiave dell’Unione europea è guidato in modo autorevole verso un obiettivo comune, nasce una leadership europea; in caso contrario, l’Europa resta senza orientamento. La persona di Mario Draghi, grazie alle sue capacità e al suo prestigio, era in grado di allineare a sé altri governi europei importanti, ma più deboli e facili al compromesso con Mosca, come quello francese e quello tedesco.
La triade Italia-Francia-Germania, guidata da Draghi e unita all’attivismo dei governi dell’Est Europa (esclusa l’Ungheria), ha formato la leadership dell’Unione europea in questi primi cinque mesi di guerra, una leadership che si è rivelata più solida e visibile del solito. La partenza di Mario Draghi rimuove la personalità più disturbante, per gli interessi russi, perché in grado di coagulare l’autorevolezza europea di fronte alla guerra.
Far cadere il governo Draghi corrispondeva sia agli interessi di potere dei partiti italiani sia agli interessi della Russia – e la caduta del governo c’è stata. Non importa se richiesta o non richiesta in modo esplicito, pagata o non pagata dai russi e in quali forme. Entrambe le parti incassano il loro utile.
La NATO e la clausola di difesa solidale
Vi è un ultimo punto, sul quale la caduta del governo Draghi fa riflettere, in relazione alla Russia. Quando ricordo che la guerra della Russia non si fermerà all’Ucraina, molti mi rispondono che Putin non attaccherà mai i Paesi della NATO, perché sa che l’alleanza reagirebbe unita. Ciò è vero oggi, ma questa condizione può cambiare, se Putin riesce a a installare alla guida di un certo numero di Paesi dell’Alleanza governi favorevoli alla Russia.
La NATO è un’alleanza militare, ma l’intervento a difesa di un Paese membro aggredito richiede una decisione politica. Se alcuni governi chiave dell’Alleanza si dicono contrari, la NATO diventa un pezzo di carta, come ogni altro trattato internazionale che non sia più sorretto dalla volontà politica di attuarlo. Durante la presidenza di Donald Trump, tutti ci chiedevamo, preoccupati, se con un tale presidente la clausola NATO di assistenza militare reciproca avrebbe ancora funzionato, in caso di aggressione.
Se riesce a creare un contesto favorevole, la Russia potrà aggredire gli Stati NATO ai suoi confini. Avrà la ragionevole certezza che americani ed europei non interverranno uniti a difenderli.
La caduta di Mario Draghi è una sorta di prova generale verso questo scenario. Occorre ora attendere, per vedere chi gli succederà dopo le elezioni italiane. In Francia, alle ultime elezioni parlamentari, i partiti sostenitori della Russia hanno raggiunto risultati considerevoli. Il Rassemblement National della signora Le Pen, in particolare, ha decuplicato i suoi seggi in parlamento. In Germania, il debole governo Scholz è esposto come non mai alle correnti d’interesse filorusse.
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Negli Stati uniti, l’autorevolezza di Joe Biden è già precaria e rischia di minimizzarsi con le elezioni di metà mandato, il prossimo novembre. Non è affatto escluso che nel 2024 gli succeda un nuovo mandato Trump o un altro presidente meno interessato ai destini dell’alleanza con l’Europa. L’idea della Russia di ammaestrare la NATO a proprio favore è molto meno difficile da realizzare di quanto sembri.
Uno scenario possibile per il futuro prossimo
Leonid Volkov, dissidente russo ben al corrente di ciò che accade a Mosca, ha disegnato qualche settimana fa uno scenario molto realistico, per i prossimi mesi. Giunto a un determinato punto della guerra, Putin potrebbe chiedere una tregua. Il mondo sarebbe felice, l’Ucraina rimarrebbe parzialmente occupata dai russi, ma per un buon numero di governanti e opinioni pubbliche occidentali ciò non sembra essere un problema primario. Accettare l’occupazione parziale dell’Ucraina metterebbe in discussione i cardini del diritto internazionale moderno, ma si sa, questi sono cavilli da Azzeccagarbugli.
Vladimir Putin utilizzerebbe la tregua per riorganizzare il suo esercito. Con il pretesto che la Russia non spara più, le sanzioni economiche contro Mosca verrebbero gradualmente revocate, per soddisfare le pressioni degli ambienti economici europei. Gli occidentali considererebbero la guerra in Ucraina come finita. Si dimenticheranno dei suoi territori occupati, come si sono dimenticati per otto anni della Crimea e del Donbas. Lo sforzo non sarà più nel sostenere la difesa dell’Ucraina, ma nel convincerla a trattare e ad accettare la prepotenza della Russia, con la benedizione del Papa e dei governi occidentali legati agli interessi russi.
Tra uno, cinque o dieci anni, la Russia riprenderà la guerra, come ha fatto il 24 febbraio di quest’anno, otto anni dopo aver iniziato e poi congelato il conflitto in Crimea e nel Donbas. Putin – o chi verrà dopo di lui – avrà avuto il tempo per influire politicamente sull’Europa e ammorbidire lo scudo della NATO. Potrà così muovere di nuovo le sue armate e ricostituire il controllo russo sui Paesi dell’ex Unione sovietica, e anche oltre. Se ai governi di Roma, Parigi, Berlino e Washington siederanno pagliacci fedeli alla Russia, «ognun applaudirà.»
Guerra in Ucraina, quando finirà: l’estate stagione-chiave
Lo scenario dipinto da Volkov è molto verosimile. La guerra in Ucraina non finirà a breve, ma è possibile che in questi due mesi di agosto e settembre assisteremo ad azioni decisive. L’autunno e l’inverno renderanno il terreno impraticabile ai mezzi corazzati e complicheranno le operazioni. Quali che saranno gli sviluppi, di fronte alle azioni del Cremlino dobbiamo prendere atto di una cosa: la Russia ha una strategia contro di noi. Noi, per difenderci dalla Russia, no.
L’azione russa è proiettata a lungo termine: può subire battute d’arresto, ma vincerà, se non sarà contrastata, perché l’Europa e gli Stati uniti non saranno stati capaci di sviluppare una leadership fondata sui valori della società aperta e dello Stato di diritto, contro i vaneggiamenti di Dugin e del Papa sulle culture popolari, sul Russkij Mir e sulla nostalgia della povertà primitiva.
In questo contesto, la caduta del governo italiano di Mario Draghi è il triste esempio di un Paese che rinuncia a esercitare la sua leadership, perché si è accorto che essere autorevole richiede di rinunciare alle zuffe di potere e a qualche interesse di bottega.
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Ma che importa tutto questo, arriva l’estate, e… tutti al mare, diceva una vecchia canzone. In Italia, in particolare, si è aperta una campagna elettorale nella quale la guerra e la politica estera sono assenti o vengono trattate come zanzare fastidiose al sole di una spiaggia.
Eppure, anche se pochi lo dicono, oggi è dalla politica estera e dall’andamento della guerra in Ucraina, che dipende la possibilità di attuare qualunque politica interna, in Italia e in Europa, per garantire alle prossime generazioni la continuazione del benessere e della libertà che abbiamo ricevuto dai nostri padri.
Vicenzo ha detto:
E’ molto interessante e veritiero, scritto da persona saggia e neutrale.
Luca Lovisolo ha detto:
Grazie per il Suo apprezzamento.
Massimo Tria ha detto:
Dottor Lovisolo,
La ringrazio molto per le analisi e i parallelismi illuminanti.
Massimo Tria, docente di Letteratura Russa
Luca Lovisolo ha detto:
Grazie per il Suo apprezzamento. I parallelismi meriterebbero più approfondimento, ma sono combattuto tra la speranza di avere il tempo di lavorarci e quella che finiscano a più presto nel dimenticatoio della Storia, esonerandomi dal dovermici ancora confrontare. Cordiali saluti. LL
Sergio Paris ha detto:
Ciao Luca,
ho letto il tuo articolo con molto interesse. Sai sempre analizzare con il giusto equilibrio ed è un lavoro assolutamente apprezzabile quello che stai facendo. Ho stampato il tuo articolo e ho sottolineato i passi salienti (almeno per me). A volte ho avuto anche i brividi per la cruda realtà che ci hai rappresentato e che può essere definita soltanto drammaticamente vera. L’ampia parte dedicata alla posizione del Vaticano e alla fine del governo Draghi devono essere rese note a più persone possibili. Sono due risvolti che mi erano chiari già da tempo. Sono profondamente cattolico e mi rincresce affermare che Papa Bergoglio non è il mio Papa. Non lo è mai stato. Proprio oggi sentivo un’altra sua affermazione davvero discutibile nei confronti degli ucraini che può essere letta soltanto in un modo.
Tra l’altro la storia ci insegna che il Vaticano, quando si tratta di una guerra, non ha mai fatto nulla di concreto per contrastarla. Gli ultimi due conflitti mondiali e il genocidio ebraico ne sono stati una prova evidente. La Chiesa va rifondata. Ha perso ogni traccia della sua missione principale. Mi dispiace enormemente doverlo ammettere, proprio perché sono credente e praticante. Sono anche dannatamente critico verso ciò che ci circonda e mi sto rendendo conto sempre più che non esiste più una massa critica sufficiente a contrastare questo fenomeno ineluttabile. Mi trovi profondamente d’accordo quando dici che al momento non abbiamo nessuna strategia per difenderci dalla Russia che ha già vinto. Le prossime elezioni sono chiaramente una farsa e non faranno altro che decretare un altro passo in più verso la fine. Non ci sono le premesse per pensarla diversamente.
Grazie mille ancora per il tuo contributo.
Luca Lovisolo ha detto:
Sergio,
Purtroppo l’ambiguità della Chiesa rispetto ai regimi autoritari è un dato storico. Tanti sacerdoti di buona volontà, durante guerre e dittature, hanno operato per il bene, ma non cambiano la realtà nel suo complesso, anche se hanno alleviato il destino di tante storie individuali. La Chiesa delude anche me che non la frequento, ma conservo un forte interesse culturale per il suo ruolo e ne percepisco l’importanza, nel dibattito sociale. Per questo motivo mi aspetterei più responsabilità, dai vertici ecclesiastici. Senza cadere in un eccessivo pessimismo, che non aiuta, non ci resta che attendere ciò che accadrà, facendo ciascuno ciò che possiamo.
Buon lavoro
Luca
Adriana Pepe ha detto:
Dr Lovisolo, grazie per la sua analisi come sempre chiara ed esauriente. Sono molto preoccupata per quanto sta avvenendo e girero’ questo suo intervento a tutti i miei contatti perché ricordino in ogni momento, e soprattutto quando andranno alle urne, quanto abbiamo da perdere se non contrasteremo la Russia e i suoi sodali italiani.
Luca Lovisolo ha detto:
Grazie a Lei per il Suo apprezzamento.
Mario ha detto:
Molto interessante
Luca Lovisolo ha detto:
Grazie. LL