I nuovi equilibri del mondo cambiano il significato dell’espressione «piccolo Stato.» A stimolare questa riflessione sono alcuni fatti internazionali accaduti in queste settimane. Gli episodi ricordati in questo articolo ci mostrano quanto sono fragili le porte che difendono la nostra torre d’avorio europea dall’arrivo di nuovi attori sulla scena internazionale. Uno scenario in cambiamento.
L’espressione «piccolo Stato» sta mutando significato sotto i nostri occhi. In passato la si usava per indicare Paesi di dimensione davvero piccola, per estensione e popolazione: Svizzera, Austria, Belgio, Olanda, Lussemburgo (quest’ultimo, a cavallo tra i piccoli e i micro-Stati come San Marino, Monaco o Liechtenstein). Oggi sono «piccoli» anche Paesi che un tempo non troppo lontano si consideravano medi o grandi: l’Italia, la Spagna, la Francia. Persino la Germania, che ha molti elementi per considerarsi un attore più grande di altri, nel concerto globale, nonostante la sua forza economica e i suoi 80 milioni di abitanti, finisce anch’essa nel calderone delle medio-piccole entità.
A stimolare questa riflessione sono alcuni fatti internazionali accaduti in queste settimane, apparentemente slegati fra loro, che svelano questo mutamento semantico. Chi è piccolo, oggi, e chi è grande? I fatti sono: in Italia, il caso della rifugiata kazaka Alma Šalabaeva; in Svizzera, la firma dell’accordo di libero scambio con la Cina; ancora in Italia, l’arresto dell’americano Robert Seldon Lady. Infine, il forzato atterraggio a Vienna di Evo Morales, Presidente della Bolivia, nell’ambito della più articolato caso Snowden.
Passerà del tempo prima che la vicenda sia del tutto chiarita, se mai lo sarà, ma sembra certo che nel caso Šalabaeva uno Stato straniero abbia esercitato un controllo del tutto anomalo su organi di Governo e di polizia italiani. Forse è esagerato affermare che «l’ambasciatore del Kazakstan ha comandato la polizia italiana,» come si è letto su qualche giornale italiano, ma funzionari di uno Stato estero hanno avuto la possibilità di accedere a stanze alle quali non avrebbero dovuto accedere e di esercitarvi un’influenza del tutto impropria, senza resistenze efficaci: uffici ministeriali, giudiziari e di polizia, autorità aeroportuali e dell’aviazione civile.
Lo Stato estero in questione, fino a poco più di vent’anni fa, sulla carta geografica non c’era, poiché confuso nella galassia dell’allora Unione sovietica. E’ provvisto però di attraenti risorse naturali, gas e petrolio, che dalla sua recente indipendenza (1991) lo hanno fatto diventare un attore di prima grandezza sulla scena internazionale, benché sia governato da un regime autoritario conclamato. Anche l’Italia vi ha interessi ragguardevoli. Quale relazione vi è tra questi interessi e l’ingerenza esercitata in Italia dai funzionari kazaki, che sono entrati in territorio italiano, hanno prelevato una persona protetta dallo status di rifugiato e se la sono portata in aereo dove volevano? La domanda sorge spontaneamente, ma non è la più nevralgica, in questo contesto.
In Svizzera si celebra oggi la festa nazionale, che significa 722 anni dalla nascita della Confederazione. Tra gli indiscussi successi diplomatici recenti della Svizzera vi è la stipulazione di un accordo di libero scambio con la Cina. In quel frangente, il Presidente della Confederazione, Ueli Maurer, ha affermato che «si può voltare pagina» («Man kann einen Strich unter diese Geschichte ziehen») rispetto al massacro di piazza Tienanmen del 1989, quando l’esercito cinese sedò le proteste di studenti e cittadini che chiedevano più libertà, sulla scia di quanto stava avvenendo negli altri Paesi dell’allora blocco comunista. Un fatto tragico che, con le sue migliaia di morti (il bilancio non è mai stato possibile precisarlo), segna ancora oggi i rapporti tra la Cina e l’Occidente.
Anche in questo caso abbiamo a che fare con una «nuova potenza,» che sino a pochi decenni or sono aveva un forte peso politico negli equilibri mondiali, ma una rilevanza economica non altrettanto significativa. L’infelice frase del Presidente svizzero suscita dapprima una domanda: quali concessioni vengono fatte, dietro le quinte, sul piano dei valori fondamentali di convivenza, alle nuove potenze economiche, per siglare con esse accordi dei quali come Europei non possiamo più fare a meno, per l’importanza che queste Nazioni hanno assunto sulla scena geopolitica mondiale? Questa, però, come sopra, è solo la domanda più ovvia e istintiva.
Il caso del Presidente boliviano in breve: quattro Paesi europei scattano sull’attenti e bloccano il loro spazio aereo, ignorando ogni convenzione diplomatica, a seguito di una segnalazione proveniente dagli Stati uniti, per giunta rivelatasi poi infondata.
Anche se rapidamente scomparso dai media, va ricordato infine l’arresto dell’agente statunitense Robert Seldon Lady, protagonista in Italia del caso Abu Omar, un episodio che presenta spettrali analogie con il caso Šalabaeva. Abu Omar, residente in Italia e sospettato di terrorismo, non era protetto dal diritto d’asilo, ma, come la signora Šalabaeva, fu rapito e condotto all’estero da agenti stranieri, in questo caso statunitensi. Questi agirono in territorio italiano senza alcuna autorizzazione, in dispregio di ogni norma e convenzione internazionale, e vi commisero di fatto un sequestro di persona.
Per questa condotta, Robert Seldon Lady avrebbe dovuto essere consegnato all’Italia per scontare la pena a cui è condannato, dopo essere stato arrestato nei giorni scorsi a Panama. Anziché consegnarlo a Roma, però, come avrebbe dovuto, la Repubblica di Panama lo ha rimandato negli Stati uniti. Washington ha esercitato pressioni affinché il Lady non venisse consegnato all’Italia, sapendo che Panama si sarebbe ben guardata dal fare resistenza a tale ingerenza; anche Roma ha alzato bandiera bianca, sapendo, a sua volta, che mai avrebbe avuto la forza di opporsi e ottenere la consegna del prigioniero, di fronte alle pressioni degli Stati uniti. Ha subìto così un’ennesima umiliazione internazionale, pur di evitare una crisi diplomatica con gli USA.
Alle domande istintive dette sopra (quanto contano gli interessi italiani in Kazakstan nel caso Šalabaeva?, cosa rivelano le affermazioni del Presidente svizzero in Cina?) si possono dare varie risposte. Si può affermare che il realismo impone certi compromessi; si può persino ritenere che a noi, dei diritti umani in Kazakistan o in Cina, in fondo, che c’importa? Anzi, sviluppare buoni rapporti commerciali può servire, residualmente, anche a migliorare la situazione dei diritti umani laggiù; è vero che gli Stati uniti comandano a volte un po’ troppo, ma, in fondo, ci hanno liberati dalle dittature del Novecento; hanno garantito libertà e prosperità in Occidente, poi le loro attività di intelligence antiterrorismo servono anche a noi, anche se non si dice ad alta voce. Ne nasce la solita polemica che muore dopo due giorni, nel migliore dei casi.
Gli episodi ricordati in questo articolo ci mostrano piuttosto quanto sono fragili le porte che difendono la nostra torre d’avorio europea dall’arrivo di nuovi attori sulla scena internazionale. Agenti stranieri riescono a influire sui nostri Governi, rapire e far volare via persone a loro piacimento dal territorio di un altro Stato: a essere in discussione non sono i diritti umani in qualche repubblica delle banane, ma lo Stato di diritto in casa nostra. Su cosa dovremo «voltare pagina» («einen Strich ziehen»), per riprendere l’infelicemente efficace espressione del Presidente svizzero, per avere il gas, il petrolio caucasici che servono a scaldare le nostre case, per accedere al sempre più ricco mercato cinese e vendere i prodotti delle aziende europee in crisi, dando lavoro così ai nostri padri di famiglia? Voltare pagina non su conquiste civili in Paesi lontani, ma qui, in casa nostra, sapendo che le nostre frontiere e i nostri ordinamenti possono essere scavalcati dal primo 007 di un Paese del quale sino al giorno prima non conoscevamo neppure il nome.
Noi Europei siamo gli inventori dello Stato come soggetto chiave delle relazioni internazionali: dove lo Stato esiste nel mondo – ormai ovunque, almeno formalmente – è perché ce lo abbiamo portato noi, con le buone o (purtroppo) con le cattive. Dalla Pace di Vestfalia in poi (1648) le relazioni internazionali si sono rette sull’equilibrio di forza tra Stati, dopo essere state lungamente determinate dagli scontri fra religioni, rapporti familistici e latifondisti. Con la parentesi del periodo napoleonico, questo principio d’equilibrio ha funzionato sino alla fine del Novecento, sorretto dalla nascita di istituzioni e organizzazioni internazionali, particolarmente al termine delle due Guerre mondiali.
Due date hanno messo in discussione questo equilibrio: il 1989, quando, con il crollo dei Paesi comunisti, nuove potenze economiche, in Asia e nel Caucaso, si sono affacciate al mondo ed è caduto il bipolarismo tra Gli Stati uniti e l’allora Unione sovietica; poi, l’11 settembre 2001, quando l’attentato alle Torri gemelle ha rivelato l’esistenza di un attore terroristico estraneo e trasversale agli Stati, che ha riportato tragicamente la religione a essere protagonista delle relazioni internazionali. Inoltre, la tragedia delle Torri gemelle ha precipitato nel panico l’unica potenza mondiale rimasta, gli Stati uniti, che da allora non esita a calpestare le norme del diritto internazionale in base a proprie valutazioni di opportunità e sicurezza interna, anche contro i propri stessi alleati (a meno che, a quanto sembra, parlino inglese).
Uno scenario in cambiamento come non accadeva, su alcuni punti, da quasi quattrocento anni di relazioni internazionali: o nascerà un nuovo equilibrio, o la Storia prenderà altre direzioni. Già oggi, però, su questo nuovo scenario, Paesi prima considerati medi o grandi e dotati di una certa influenza, come Italia, Francia e altri di dimensioni analoghe, devono ormai essere definiti «piccoli Stati.»
La capacità di questi Stati di difendere benessere e libertà dei loro cittadini dipende sempre meno dalla loro organizzazione interna e sempre più dalla loro volontà e capacità di aggregarsi, per avere un peso reale sui nuovi scenari globali. Mai come oggi l’aggettivo «piccolo,» riferito a uno Stato, ha avuto significato tanto incerto.