«Genocidio:» il significato torna in discussione con la guerra in Ucraina. Ricorre in molte altre circostanze: la Giornata della memoria per le vittime dell’Olocausto o la Giornata del ricordo per le vittime delle foibe. L’uso può essere controverso, anche nei giudizi dei tribunali internazionali. Vi sono eventi efferati non qualificabili come genocidi. I problemi terminologici vengono di conseguenza.
Può suscitare stupore, che si discuta se un fatto di violenza estrema può o definito «genocidio» o no. Nel linguaggio comune siamo liberi di usare questo termine secondo la nostra personale valutazione. «Genocidio» è anche una fattispecie del diritto penale internazionale: in quanto termine tecnico-giuridico, può essere usato solo se ricorrono gli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie stessa.
La valutazione emotiva, legittima nel linguaggio comune, non è sufficiente quando si parla di «genocidio» in contesti riguardanti il diritto e le relazioni internazionali. E’ appunto in questa veste, che il termine compare nel contesto della guerra in Ucraina e di altri fatti tragici, dalle «pulizie etniche» alle persecuzioni religiose.
Alcuni esempi: si definisce «genocidio» l’uccisione di appartenenti all’etnia armena – tra il milione e mezzo e i due milioni di morti – compiuta dai turchi (allora ottomani) negli anni intorno alla fine della Prima guerra mondiale. La definizione, però, è tutt’oggi controversa. Non vi sono dubbi, invece, sull’uso della definizione genocidio per lo sterminio degli ebrei (Shoà), attuato in Europa dai nazisti e dai regimi loro affini.
La parola genocidio indica l’uccisione metodica di un gruppo etnico, religioso o razziale: l’espressione nasce dall’unione di genos (stirpe) e –cidio, a significare la soppressione di individui uniti da qualche tratto etnico o culturale. Proprio sul genocidio armeno è sorta una lunga controversia, sull’uso di questa parola, ma non è il solo caso di disaccordo.
Genocidio: significato e definizione nella fonte del diritto
Nel 2015 ha suscitato disapprovazione la sentenza della Corte internazionale di giustizia, che non ha riconosciuto come genocidio i fatti avvenuti durante la guerra tra Serbia e Croazia. Com’è possibile non qualificare come genocidio le inaudite uccisioni, torture e violenze commesse durante quel conflitto?
Anche nel diritto internazionale, come in quello nazionale, le parole devono avere un significato preciso. L’esattezza e il mantenimento nel tempo del loro contenuto (la cosiddetta normofilassi) è essenziale per l’applicazione delle norme e per la certezza del diritto. Se vogliamo comprendere la parola genocidio nel significato che gli attribuiscono il diritto e le relazioni internazionali, dobbiamo cercarlo nelle norme che costituiscono questa fattispecie. In particolare, nella Convenzione delle Nazioni unite sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio (o delitto di genocidio, in Svizzera) del 9 dicembre 1948 (>qui).
All’articolo 2 della Convenzione il genocidio è definito in questo modo:
«Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti,
commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale,
etnico, razziale o religioso, come tale:
a) uccisione di membri del gruppo;
b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a
provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.»
La fattispecie di genocidio si compone in due elementi, quello oggettivo e quello soggettivo. Perché vi sia genocidio, è necessario che siano presenti entrambi. L’elemento oggettivo è dato dall’esistenza dei fatti elencati dettagliatamente nella norma: deve essere accaduta l’uccisione o la lesione grave all’integrità di membri di un gruppo etnico. L’elemento soggettivo, invece, considera l’intenzione per la quale questi atti sono stati commessi.
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Per riconoscere l’esistenza di un genocidio nel significato voluto dalla norma non basta che siano avvenuti i fatti. Questi devono essere compiuti con «l’intenzione di distruggere in tutto o in parte» un gruppo etnico. Non vi è genocidio, perciò, se l’uccisione o le lesioni gravi a danno di un popolo vengono compiute indistintamente o sporadicamente. Si deve riconoscere la precisa volontà di sopprimere totalmente o parzialmente un un’etnia, una nazionalità o gli individui che professano una certa religione.
I casi controversi nella storia recente
Mentre è relativamente più semplice ricostruire i fatti accaduti, è più difficile accertare se coloro che hanno commesso tali atti, per quanto riprovevoli, abbiano agito effettivamente con l’intento di distruggere un popolo nel suo insieme. La sola uccisione di molte persone, non motivata però da questa intenzione specifica, sarebbe qualificabile come omicidio o omicidio di massa, ma non come genocidio.
La Turchia, ad esempio, contesta per l’appunto l’esistenza dell’elemento soggettivo, nel genocidio armeno. Non è possibile negare che centinaia di migliaia di individui di etnia armena siano stati soppressi, ma, secondo la Turchia, ciò non sarebbe avvenuto con l’intenzione di distruggere gli armeni in quanto popolo. La Turchia afferma di aver agito con l’intento di difendersi dalle azioni di singoli gruppi di ribelli, in quanto violenti e pericolosi, non perché appartenenti all’etnia armena.
Anche nel caso della ex-Jugoslavia, la Corte internazionale di giustizia non ha rinvenuto l’elemento soggettivo, ossia l’intenzionalità specifica di distruggere un gruppo etnico. Ha riconosciuto la gravità dei fatti accaduti, ma non ha potuto qualificarli come genocidio. Sentenze come questa suscitano spesso accese reazioni pubbliche, perché sembrano urtare il senso comune, che vede nel genocidio un significato meno rigoroso.
Questa decisione non significa, però, che la Corte internazionale di giustizia abbia negato le atroci violenze avvenute nella ex-Jugoslavia: la sentenza si limita ad accertare che questi fatti non rientrano nella fattispecie di genocidio fissata nella norma internazionale. In conseguenza, non possono essere applicate le sanzioni previste dalla norma stessa.
Genocidio: significato tassativo e termini alternativi
Per questi motivi, in un contesto tecnico-giuridico la parola genocidio non indica qualunque omicidio di massa. Dove non vi è la certezza che i fatti e le intenzioni dei loro autori corrispondano alla definizione data dalla norma, si usano altri termini: sterminio, eccidio o strage. Infine, la parola genocidio contiene un pesante bagaglio simbolico: se usata a sproposito, può avere conseguenze sui rapporti diplomatici. La corretta scelta delle parole, in questi, casi è essenziale.
Il giudizio giuridico sui fatti può essere diverso da quello storico: anche l’uso delle parole ne risente. La norma giuridica deve essere applicata secondo un principio di tassatività, cioè solo nelle situazioni che corrispondono agli elementi descrittivi della norma stessa. Il giudizio storico, umanitario o morale poggia invece su altre considerazioni. Vi è persino chi si chiede se sia opportuno definire secondo elementi giuridici un fatto come un genocidio: il significato di questo atto può variare nella Storia e presentarsi in modi molto diversi. La guerra in Ucraina apre un nuovo, triste fascicolo di accertamenti sulla natura degli eventi.
E’ difficile far rientrare in una definizione strettamente normativa tragedie immani, come l’annientamento di interi popoli, di gruppi etnici o comunità religiose. In taluni casi, l’applicazione della norma suscita sconcerto, perché può causare disparità nel trattamento delle vittime e nella punizione dei responsabili.
(Articolo pubblicato in originale il 11.2.2019, ripubblicato con aggiornamenti il 26.4.2022)
Fausto ha detto:
Salve Luca,
Ma se l’Onu o comunque gran parte dei paesi del mondo riconoscesse il genocidio, quali sarebbero le conseguenze materiali per la Turchia? Pesanti riparazioni verso l’Armenia? E il commento del Papa, non potrebbe mettere a rischio la comunità cristiane? Grazie.
Luca Lovisolo ha detto:
Esiste innanzitutto un problema di forma: nessuno Stato gradisce essere additato come colpevole di un genocidio, di fronte alla comunità internazionale. Vi è poi la questione, cui Lei accenna, delle riparazioni. L’Armenia potrebbe formulare richieste di vario genere, dalla restituzione delle proprietà alla ridefinizione dei confini tra i due Stati (oggi, importanti porzioni di territorio storicamente armeno, tra cui il celebre Monte Ararat, sono assegnate alla Turchia). Le persone responsabili del genocidio non potrebbero più, evidentemente, essere portate alla sbarra, ma lo Stato turco verosimilmente sì, sia in sede bilaterale sia in sede internazionale, poiché successore dell’Impero ottomano. Le violazioni ai diritti umani di tale gravità, inoltre, non sono soggette a prescrizione. L’Armenia potrebbe avanzare richieste indipendentemente dal riconoscimento internazionale del genocidio, ma è chiaro che un tale riconoscimento aggraverebbe pesantemente la posizione della Turchia, che interviene ogni volta per contrastare questa interpretazione dei fatti. Infine, il riconoscimento del genocidio contraddice la narrazione degli eventi che la Turchia fa al proprio interno, ed è conseguente che cerchi di contenerne la diffusione. Quanto alla scelta del Papa di esprimersi così apertamente, ricordiamo quanto accaduto con Pio XII. Ai tempi della dittatura nazista scelse la linea morbida, nelle dichiarazioni pubbliche. Ciò lo ha esposto alla critica della Storia per non aver levato la sua voce contro i crimini avverso gli Ebrei (va anche ricordato, però, che fu protagonista di numerosi episodi di salvataggio, la sua posizione non fu sempre adeguatamente valutata dalla storiografia successiva). Papa Francesco sembra aver scelto una linea più schietta, che va letta non solo nello specifico del genocidio armeno, ma in tutto l’attuale, difficile quadro mediorientale. Non credo che sia stata una scelta facile. La Storia saprà dire se sarà servita a evitare altre tragedie. Cordiali saluti.