È deceduto il 30 agosto a Mosca Michail Sergeevič Gorbačëv, ultimo capo di Stato dell’Unione sovietica, protagonista della riforma divenuta celebre come perestrojka. Fu insignito del Premio Nobel per la pace 1991. Si è detto tutta la vita convinto comunista. Osannato come colui che aprì l’Unione sovietica alla modernità, la sua immagine cambia nei ricordi dei russi e dei cittadini dell’ex Unione sovietica.
«Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza» disse Manzoni di Napoleone, astenendosi dal giudizio. I posteri di Gorbačëv siamo noi, qualcosa dobbiamo pur dire.
In Occidente, Gorbačëv è osannato da quasi tutti come colui che aprì l’Unione sovietica alla modernità. Per i popoli dell’Est Europa è il liberatore dal sistema comunista che li condannò per decenni alla subalternità. L’immagine di Gorbačëv si oscura, però, quando ne parlano i cittadini non russi dell’ex Unione sovietica: per loro è l’ultimo rappresentante del potere imperiale di Mosca. Precipita tra i russi: i più giovani potrebbero dirvi che non sanno chi è; gli adulti e gli anziani ricordano che Gorbačëv aveva suscitato entusiasmo.
Per la prima volta, un capo di Stato sovietico parlava a braccio, non leggeva discorsi soporiferi da interminabili pile di carte; scendeva in strada, stringeva le mani ai passanti. Grazie a lui i sovietici sperimentavano libertà di espressione, di critica e di iniziativa privata mai conosciute prima. Poi, però, chi visse quegli anni racconta le tragedie economiche del suo governo e il senso di spoliazione seguito alla fine dell’Unione sovietica.
Tutti, a est e a ovest, dalle Alpi alle piramidi, attribuiscono a Gorbačëv la fine dell’Unione sovietica. Non è stato questo il suo ruolo, però.
Michail Gorbačëv: cosa ha fatto e da dove veniva
Gorbačëv arriva a Mosca negli anni Settanta da Stavropol, nella Russia meridionale, dove aveva presieduto il Partito comunista locale. Pochi lo conoscono. Gli uomini di governo lo ricordano per averlo incontrato nella sua città, dove c’è un sanatorio che frequentano volentieri. Gorbačëv andava a trovarli, si faceva notare con la sua loquacità e il piglio deciso. Sale al potere nel 1985. I meccanismi interni del Partito comunista sovietico sono esausti: alla morte di Brežnev, anziano e immobile, erano seguiti i brevi segretariati di Jurij Andropov e Konstantin Černenko.
Eleggere Gorbačëv è una scelta obbligata. Persino Andrej Gromiko, il vecchio e inossidabile ministro degli esteri che aveva aspirato alla poltrona più alta, capisce che serve un capo di nuova generazione. Fa un passo indietro e suggerisce anche lui di nominare l’astro cinquantenne che dirigeva già molte funzioni del partito, durante le lunghe degenze in ospedale di Černenko. Gorbačëv è laureato in legge, perciò diventa uno dei capi di Stato più colti di tutta la storia sovietica. Nonostante ciò, basta che apra bocca perché si capisca da dove arriva. L’accento della sua regione, influenzato dalla parlata ucraina, emerge impietoso anche nei discorsi ufficiali e fa la gioia dei cabarettisti.
La prima prova, per il «giovane» Gorbačëv, viene il 26 aprile 1986. Esplode il reattore numero 4 della centrale nucleare di Černobyl’. Gorbačëv racconta di essere stato informato la mattina presto, tirato giù dal letto da una telefonata. Deve affrontare il problema e comunicare al mondo la situazione in modo adeguato al nuovo corso che lui stesso ha inaugurato.
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Michail Gorbačëv, cosa ha fatto: il disastro di Černobyl’
È molto avvincente, sentire il racconto di quelle ore dalla sua voce. I ricordi di altri protagonisti non corrispondono sempre ai suoi, però. Passano giorni, prima che Gorbačëv si presenti in televisione per annunciare il disastro. È più aperto di quanto lo sarebbero stati i suoi predecessori, forse, ma impone che a Kyiv si svolga comunque la parata del primo maggio. La capitale ucraina dista da Černobyl’ meno di 150 km, il livello di radiazioni non è compatibile con una manifestazione all’aperto.
Il governo ucraino tenta invano di assumere un ruolo nella gestione del disastro. Dal Cremlino di Gorbačëv arrivano gli stessi silenzi che arrivavano già negli anni precedenti dai suoi precedessori, quando Kyiv ammoniva contro il cattivo stato delle centrali nucleari e la carenza di personale qualificato.
Gorbačëv intraprende la riforma dell’economia. Vuole reinventare un’economia privata senza tradire quella socialista, rilanciare l’industria senza scontentare i settori del Partito che la controllano e senza escludere l’esercito, che ne è un cardine. È un pantano. Il rilancio delle cooperative, viste come strumento ideale tra economia privata e collettivizzata, causa corruzione e svendita del patrimonio produttivo.
La riforma dell’industria comincia dalla coda: invece di spingere sulla produzione di beni di prima necessità per una popolazione delusa e affamata, Gorbačëv investe sull’industria pesante e dei macchinari. Il risultato sono negozi sempre più vuoti e una popolazione sempre più nera. Nella quasi totalità dell’Unione sovietica, i cittadini non possono acquistare nemmeno il sapone, senza presentare la tessera del razionamento.
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Michail Gorbačëv, cosa ha fatto: la riforma costituzionale
Accortosi che le sue riforme incontrano la crescente opposizione del Partito, Gorbačëv tenta di aggirarlo con una modifica costituzionale. Istituisce l’Assemblea dei deputati del popolo. Non esistono i partiti politici, ma l’Assemblea è l’organo più simile a un parlamento che l’Unione sovietica e la Russia imperiale abbiano mai conosciuto. Vi vengono eletti anche dissidenti, attivisti di varia provenienza, rappresentanti delle accademie.
I partiti si formano spontaneamente al suo interno: lo storico sovietico Roj Medvedev, emigrato negli USA e tornato in patria attratto dal nuovo corso, viene eletto. Nel suo saggio Gli ultimi anni dell’Unione sovietica racconta il nascere nell’Assemblea delle tendenze conservatrici e riformiste, di quelle legate agli interessi economici e alle minoranze etniche.
Per far cessare l’eterna sovrapposizione tra cariche di Stato e di partito, Gorbačëv crea la figura del Presidente dell’Unione sovietica. L’Assemblea elegge lui, sarà il primo e l’ultimo.
Proprio di fronte alla questione etnica, Gorbačëv registra un fallimento bruciante. Federale solo sulla carta, il sistema sovietico, in realtà, non tollera le diversità etniche. Leonid Kravčuk, che nel 1991 diventerà primo presidente dell’Ucraina indipendente, nel 1975 aveva tenuto un discorso di saluto per il 50° di costituzione della Repubblica sovietica dell’Uzbekistan. Aveva detto: «Il popolo ucraino si congratula con il popolo uzbeko per il cinquantesimo della sua repubblica.» Era stato subito rimproverato dall’allora primo segretario del Partito comunista ucraino: «Compagno Kravčuk, Lei non sa che il popolo ucraino e quello uzbeko non esistono? Esiste un solo popolo sovietico. Lei una cosa simile non la dice più.»
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La questione etnica, eterna croce dell’Impero
I conflitti etnici avevano condotto l’impero russo alle soglie dello sfaldamento già alla fine della Prima guerra mondiale. Lenin, con astuzia, era riuscito a rincollarne i cocci sotto forma di Unione sovietica federale, ma le autonomie locali erano minime. Su tutto aveva messo il coperchio dell’ideologia, fondata sul mito del popolo unito, mobilitato nella lotta per il comunismo.
All’arrivo di Gorbačëv, negli anni Ottanta, la mobilitazione è finita: nella popolazione dimora un misto di noia, rabbia e delusione. Dai Baltici al Caucaso, i popoli non russi si ribellano all’egemonia di Mosca. Gorbačëv, cresciuto in una cultura che riconosce le questioni etniche solo come attentato alla sicurezza dello Stato, fa intervenire l’esercito. L’esito sono morti e feriti che marcano l’ultimo addio all’Unione sovietica e all’Impero zarista. La guerra in Ucraina, oggi, è l’onda lunga di quella prepotenza, che rimonta a Pietro il Grande.
È questo insieme di contraddizioni, che fa crollare l’Unione sovietica, non le riforme di Gorbačëv. Uno stato fondato sulla società chiusa e sull’economia socialista non può essere riformato verso l’economia di mercato e la società aperta. Gorbačëv ci prova, non ha alternative. Se avesse proposto lo scioglimento dell’Unione e la ricostruzione dei Paesi uscenti su principi liberali, lo avrebbero eliminato. Se non avesse tentato la riforma, l’Unione sovietica sarebbe crollata comunque, in modo forse ancor peggiore.
Nell’agosto del 1991 un colpo di Stato fallisce per un soffio. Gorbačëv viene trattenuto con la forza in Crimea, mentre a Mosca i carri armati scendono in strada e Boris El’cin emerge come leader incontrastato. Gorbačëv torna al potere, ma l’Unione sovietica finisce di esistere materialmente in quei giorni.
Michail Gorbačëv: cosa ha fatto alla fine dell’Unione sovietica
Nell’animo dei cittadini, la fine dell’Unione sovietica era cominciata negli anni Settanta, quando i sovietici avevano capito che il comunismo falliva, dinanzi al crescente divario di sviluppo rispetto all’occidente capitalista. L’otto dicembre 1991 Ucraina, Russia e Bielorussia fondano la Comunità degli Stati indipendenti e dichiarano cessata l’Unione sovietica. Da quel giorno Gorbačëv è un presidente senza Stato. Il suo progetto di riforma diventa carta straccia. Si dimette il 25 dicembre.
Gorbačëv aveva cominciato il suo mandato tra gli applausi, ma lo finisce abbandonato da tutti. Lo isolano anche molti intellettuali che avevano salutato la libertà di espressione che aveva portato, spezzando il monopolio culturale del Partito. Ad avere un ricordo positivo di Gorbačëv, nella Russia di oggi, sono proprio alcuni intellettuali e quei cittadini che sanno distinguere il valore ideale della sua riforma dal disastro economico che la accompagnò.
Che lezione ci lascia l’ultimo leader dell’Unione sovietica
In questo quadro fallimentare, la forza di Michail Gorbačëv si capisce quando si ascoltano i suoi discorsi. Parla a braccio, dice tutto e niente perché deve tenersi in equilibrio come un funambolo tra conservatori e riformisti. Rimpiazza con il carisma la nebulosità dei contenuti. Con quel suo accento che sa di campagna, di fieno e di sudore di vecchie contadine spettinate, arringa assemblee di uomini di partito più vecchi di lui di venti, trent’anni. Lo guardano con gli occhi di sangue, perché sta smontando il sistema che ha permesso loro di campare una vita di privilegi.
Ci voleva del coraggio, a parlare così a quelle assemblee. Fuori dall’Unione sovietica, Gorbačëv ha ottenuto risultati che gli hanno assicurato un posto nei libri di Storia: la fine dei regimi dell’Est Europa, la caduta della «cortina di ferro» e gli accordi sulla riduzione degli armamenti. All’interno del suo Paese, l’opera di Michail Gorbačëv è un alternarsi di parziali successi e di tragici errori.
La lezione che lascia al mondo è il suo coraggio. Servirebbe anche ai russi di oggi, di fronte ai loro tiranni, ma sembra che l’abbiano dimenticata.
Giacomina Enrica Maria CASSINA ha detto:
Mi permetta un piccolo ricordo personale suscitato da questo Suo scritto tanto colto quanto godibile. Alla fine degli anni ’90, a Varsavia, una Varsavia di cui avevo seguito il profondo cambiamento dal 1980 in poi, dissi, conversando con alcuni antichi amici polacchi, che Gorbačëv non era il capostipite di una riforma democratica del sistema, ma un personaggio che, forse, avrebbe voluto fare di più e meglio, ma che finì per essere solo l’ultimo leader dell’URSS prima che il regime sovietico, dopo la disgregazione, si riassestasse come regime di altro tipo, decisamente antidemocratico quanto e forse più del precedente. Solo Tadeusz Mazowiecki mi diede ragione, gli altri speravano ancora in non si sa in quale catarsi.
Luca Lovisolo ha detto:
Grazie per il Suo apprezzamento e il Suo ricordo. Gli eventi hanno poi confermato quei timori, purtroppo. Cordiali saluti. LL