L’evento che caratterizza la fine di quest’anno è la conferenza stampa di Vladimir Putin. Rispetto alle edizioni passate, i toni sono stati più espliciti, a tratti sprezzanti e minacciosi. Nella conferenza di questa fine 2019, Putin ha affermato che l’unica ideologia possibile oggi è il patriottismo: un’espressione che può sembrare persino bella. Non per chi sa cosa c’è dentro, al patriottismo alla Putin.
Se devo trovare un evento che caratterizzi questa fine 2019 e ci offra un viatico per il 2020, lo trovo nella conferenza stampa di fine d’anno di Vladimir Putin, sulla quale ho già scritto per sommi capi >qui e non tornerò. Rispetto alle edizioni passate, i toni del presidente russo sono stati più espliciti, a tratti persino sprezzanti e minacciosi, in particolare sui temi internazionali, ma non è solo per questo che la conferenza è, dal mio punto di vista, l’evento significativo della fine di quest’anno.
Lo è, di riflesso, per l’indifferenza con la quale l’Occidente guarda alla condotta internazionale della Russia, quasi che la denuncia del suo crescente appetito di controllo su di noi europei sia un’elucubrazione da ricercatori, un’interpretazione giornalistica o il vaneggiamento di qualche russofobo.
Ormai da molto tempo studio le lezioni nelle quali il filosofo e politologo Aleksandr Dugin illustra le sue teorie, quelle che Vladimir Putin mette puntualmente in pratica con la sua politica. Non basta ascoltarle una volta, bisogna sentirle e risentirle da più punti di vista, seguire il suo dibattito con gli allievi presenti ai seminari, vincendo i difetti delle riprese audio, alcune sembrano fatte con qualche antico grammofono a rulli cerati. Significa passare decine e decine di ore all’ascolto di lezioni di filosofia politica in russo, indubbiamente affascinanti: Dugin non è Popper e nemmeno Gadamer, ma sa argomentare.
Ci si lascia catturare in fretta dal suo discorso, quando si addentra nella posizione del Dasein di Heidegger come soggetto della sua Quarta teoria politica; quando fa lunghe premesse sulle implicazioni filosofiche del diverso uso del termine essere nella lingua tedesca e in quella russa; quando cita le lezioni argentine di Garcia Lorca o i filosofi greci delle origini. In alcuni seminari è capace di parlare solo lui per oltre due ore, senza pause e senza perdere un colpo della sua logica.
Seguirlo non è un lavoro da poco, ogni riferimento va ricercato e chiarito. Dedicarmici ha rallentato giuocoforza altre attività, ma il mio mestiere è studiare. L’ho fatto nella convinzione, che confermo ogni giorno di più, che la chiave per capire le mosse della Russia sul teatro internazionale sia in quelle lezioni, non certo nelle conferenzine che Dugin viene a tenere in Europa, che rispetto ai suoi seminari moscoviti sono piccole parodie, e nemmeno nei suoi libri. Vieppiù mi convinco che in quella visione sia disegnato il futuro nostro e delle prossime generazioni di europei: se non accadrà qualcosa in grado di opporvisi, che al momento non si vede neppure albeggiare, questo futuro si realizzerà senza dubbio e senza sparare nemmeno un colpo di cannone, tra gli applausi delle folle.
Se così sarà, chi verrà dopo di noi rimpiangerà lo stile di vita che la nostra generazione potrebbe essere l’ultima ad aver conosciuto. Molto si sta già realizzando, le avvisaglie sono già qui, per chi ha gli occhi per vederle. L’antica certezza che gli Stati uniti sarebbero rimasti un faro di libertà, della cui luce riflessa avremmo beneficiato nunc et usque in aeternum, anch’essa non è più. La sintonia personale fra Trump e Putin è altissima, anche questo dato ha trovato conferma nella conferenza di fine d’anno del presidente russo: se non fosse per i pesi e contrappesi della democrazia statunitense, che limitato la sua arbitrarietà, Trump sarebbe un altro Putin. E’ pericoloso credere che un possibile ma sempre meno probabile cambio personale alla guida degli USA dopo le elezioni del 2020 muterà qualcosa di sostanziale. Se noi europei vogliamo passare ai nostri figli le garanzie e il benessere che abbiamo avuto dai nostri padri, invidiato con le bave alla bocca dal restante 93% della popolazione mondiale, dobbiamo difenderlo da soli.
Continuerò a parlarne e ad approfondire, anche nel mio libro sull’Ucraina, che dovrebbe finalmente uscire nell’anno che comincia. Se continuerà così, l’Ucraina di oggi non è che il pallido preludio di ciò che sarà l’intera Europa fra non molto tempo. Tra i lavori rallentati dalla necessità di indagare più a fondo il pensiero di coloro che dettano la politica di Putin vi è stato anche questo. Mi sono reso conto in fretta che se volevo trattare la questione ucraina fuori dalle solite contrapposizioni, per cavarne la radice, avevo bisogno di una fondazione teorica più salda. Non è possibile che la Russia agisca così per seguire le mire di un uomo, mi sono detto, soprattutto considerando che tale uomo, Vladimir Putin, non sembra in grado di inventare nulla di suo, particolarmente in politica estera.
L’azione internazionale della Russia deve avere una fondazione teoretica, sotto i piedi di Putin, o non si spiega: che sotto vi sia la scuola filosofica di cui Dugin è figura guida, è fatto notorio. Molti, però, anzi troppi, negano o non vedono la relazione diretta fra il predicato del filosofo e le azioni del Cremlino. Studiare Dugin fuga ogni dubbio. La sua è una scuola di pensiero filosofico-politico in crescita esponenziale, e l’arroganza di Putin alla conferenza di fine d’anno è la prova lampante che la marcia è vittoriosa. Putin attua un disegno i cui primi tratti erano già visibili in Evgenij Maksimovič Primakov, Ministro degli esteri e brevemente capo del governo della Russia di El’cin, prima dell’ascesa di Putin. L’abilità tattica di Putin ha dato a questa visione un esecutore fedele e indefesso, ma l’attuazione del progetto continuerà anche dopo l’attuale presidente russo.
Ne discende un’altra osservazione, per noi molto infelice. Noi occidentali non siamo in grado di opporre a quella elaborazione alcunché di altrettanto articolato, a sostegno del principio di libertà e centralità dell’individuo alla base dello Stato di diritto, che è una nostra invenzione. Lasciamo dire a Putin sui nostri giornali che lo Stato di diritto è finito, cioè che la nostra storia è finita; che lo Stato autoritario, il suo, è il modello del futuro; schiere sempre più ampie di elettori europei votano come amanti al culmine dell’eccitazione politici invischiati fino ai gomiti nella brodaglia retorica del Cremlino: quelli italiani lo sono quasi tutti, in modi diversi, dietro le apparenze, ma anche in Svizzera e nel resto d’Europa non ci si fa mancare nulla. Ci mascheriamo dietro la libertà di espressione, per lasciar parlare chiunque si faccia beffe di noi, e non riconoscere che siamo incapaci di controbattere.
Morto Karl Popper nel 1994, forse l’ultimo grande filosofo autore di una moderna fondazione dello Stato di diritto e della società aperta, l’Occidente non ha più prodotto nulla, per contrastare la scuola di Dugin, che è fondazione e giustificazione dell’autoritarismo etnocentrico; un’ideologia non conservatrice — che può piacere o non piacere — ma dichiaratamente regressiva, rifugio per i perdenti che hanno mancato l’appuntamento con la modernità, la diversità e il progresso, nascosta dietro una falsa promessa di liberazione e redenzione dai mali del mondo.
Le facoltà universitarie europee almanaccano sulle vecchie ideologie; si costituiscono commissioni parlamentari «antirazzismo,» si votano delibere comunali di «emergenza nazismo» e si affollano piazze «antifasciste,» senza sapere che la scuola di Mosca, che è in mezzo a noi, ha già sostituito questi termini con altri non in grado di nuocere. Il razzismo è diventato «solidarietà fra appartenenti alla stessa civilizzazione,» i vaniloqui etnofili di nazismo e fascismo sono superati da mitologie dipinte intorno alla natura del tango argentino o al senso della morte nella cultura contadina spagnola, nel «duende» evocato da Lorca o nell’«ultimo dio» salvifico di Heidegger; lo statalismo comunista si materializza sotto inedita specie, quando Dugin cita a modello l’Arabia saudita, parlando di Stato e modelli economici; le zone d’influenza e la sottomissione alle superpotenze sono tradotte nel concetto moderno e rassicurante di «mondo multipolare.»
Sono certo che molti autodichiarati e fieri «antirazzisti, antifascisti e antinazisti» siano fra coloro che vanno ad applaudire Dugin ogni volta che compare in Europa con il suo barbone grigio, senza capire che a Mosca si sta costruendo l’intelaiatura per gli stessi disvalori di cui si dicono avversari. Scendono in piazza sventolando pesci di pezza, urlando slogan fatti di parole di settant’anni fa — e cito l’Italia come esempio, solo per praticità, ma vale per tutti. Vorrei liquidare tutto con un sorriso benevolo, ma è una cosa seria e non si può.
Nella conferenza di fine d’anno, Putin ha affermato che l’unica ideologia possibile oggi è il patriottismo: un’espressione che può sembrare persino bella, detta così. Chi sa cosa c’è dentro quel patriottismo, il costrutto della Quarta teoria politica di Dugin, sa che nel patriottismo alla Putin c’è il regresso a un autoritarismo nazionalista e statalista in cui l’individuo, con la sua naturale aspirazione alla libertà e alla varietà, è soppresso come un elemento di disturbo; un atomo di un tutto che — sono parole di Dugin — è privo di senso, se tolto dalla sua comunità.
Non stiamo parlando di un caldo sentimento di appartenenza solidale, ma della cancellazione della persona umana e delle sue aspirazioni come centro, motore e limite dell’organizzazione sociale; di una supremazia della «civilizzazione» — come successore abbellito della razza — e persino della tradizione religiosa e popolare sull’autodeterminazione del singolo.
I diritti umani diventano relativi, poiché il concetto falsamente accattivante della «molteplicità di civilizzazioni» offre la base logica per giustificare l’esistenza di società in cui i diritti umani sono calpestati: vi sono «civilizzazioni» nelle quali è normale che l’Uomo sia comandato e oppresso, chi l’ha detto che i diritti fondamentali sono un bene universale, uguale per tutti?, va bene così. Ma agli «antifascisti, antirazzisti e antinazisti» queste cose non interessano, anzi vanno bene: mica si chiamano fascismo, razzismo o nazismo, no?
In questo tragicomico straniamento, almeno per quanto mi riguarda, vedo la cifra di questa fine d’anno. Sul questo sito ci saranno alcune novità, dal 2020. Ci risentiremo a gennaio. Un cordiale augurio di buone feste di fine d’anno e di un prospero 2020 a tutti i Lettori.
Mario Piovesan ha detto:
Buon anno nuovo anche a lei Sig. Luca, ed agli auguri desidero affiancare un sincero ringraziamento per il suo prezioso lavoro.
Luca Lovisolo ha detto:
Grazie a Lei per l’attenzione.
Elena ha detto:
Da tempo mi chiedo se uno dei limiti delle odierne società occidentali non sia l’incapacità di elaborare una visione che consenta la convivenza dell’idea di individuo come libero di esprimere la propria singolarità e unicità di pensiero e azione e l’indispensabile tutela del “bene comune”, che si declina in modalità altrettanto variegate e complesse, ma che per forza di cose ha il compito di definire il confine tra diritto e desiderio , e di porre limiti alla libertà del singolo.
In tutto ciò è prevedibile che la sfida della complessità venga aggirata ricorrendo alla facile ricetta dell’autoritarismo, che affascina per le sue promesse di sicurezza e legalità, e soddisfa il bisogno ancestrale di sentirsi parte di un gruppo omogeneo e identitariamente ben definito (tra l’altro, nulla è meglio di un nemico per cementare l’identità).
Per questo motivo, sarebbe molto interessante poter leggere uno studio puntuale e ben documentato sul Dugin-pemsiero. Non è escluso che qualche casa editrice possa essere interessata a una pubblicazione di questo tipo.
Luca Lovisolo ha detto:
Le dottrine politiche come quella di Dugin (che non è né il primo né il solo a proporre programmi simili, nonostante la sua pretesa di originalità) servono esattamente ad aggirare il problema di conciliare la libertà individuale con l’interesse collettivo, facendo prevalere senz’altro il secondo. Quanto alle pubblicazioni, esistono traduzioni italiane di alcuni suoi libri, oltre che in varie altre lingue. I libri di Dugin hanno una caratteristica che li accomuna ad altre opere simili, anche più perniciose, tra le quali il «Mein Kampf» di Adolf Hitler: leggendoli, danno l’impressione di contenere ricette che risolvono ogni problema nel modo più semplice, entusiasmando gli ingenui, che vedono nell’autore un genio assoluto, possessore delle soluzioni a cui nessun altro ha pensato prima, sebbene fossero all’apparenza così semplici. I suoi libri andrebbero pubblicati con un adeguato apparato critico, che renda attenti i lettori su ciò che si nasconde dietro a tante affermazioni che sembrano l’uovo di Colombo, ma nascondono insidie che non si riconoscono, se non si ha un’adeguata preparazione e non si è informati sul contesto da cui sorgono. Senza questo presupposto, non so se augurarmi che le sue opere trovino maggiore diffusione.