
Il crollo del ponte di Genova fa pensare al momento storico della sua realizzazione. Un periodo di entusiasmi, per le nuove tecnologie e per la pace dopo due guerre mondiali. Fu anche un’epoca di leggerezze. Opere realizzate da architetti che esploravano nuove frontiere, ma che erano, per formazione, figli di fine Ottocento. Cosa imparare, superata l’emotività del fatto.
Il crollo del ponte di Genova mi fa pensare al disastro della diga del Vajont. Le due opere furono costruite a meno di dieci anni di distanza e sono figlie dello stesso momento storico. Un momento fatto di entusiasmo per le nuove tecnologie di allora, per la pace dopo due guerre mondiali che chi viveva in quegli anni aveva visto in prima persona, e per un boom economico che sembrava inarrestabile. Fu anche un’epoca di leggerezze, sull’onda di quell’entusiasmo, indotte dalla convinzione che ormai tutti i limiti potessero essere superati.
Un’epoca di rapporti autoritari, in cui la parola di chi comandava non si metteva in discussione: Giorgio Dal Piaz, che sottovalutò gravemente i rischi di frana intorno all’invaso del Vajont; Carlo Semenza, che costruì la diga (che, ironia della tragedia, non crollò); Riccardo Morandi, autore del ponte di Genova, sulle cui debolezze progettuali molti tecnici negli ultimi anni sembrano aver ripetutamente ammonito, inascoltati. Geni a fianco di pressapochisti, studi approfonditi ma anche relazioni scopiazzate e sopralluoghi superficiali. Costruivano opere mai realizzate prima, esploravano nuove frontiere, ma erano, per formazione, figli della scuola di fine Ottocento. Poi, naturalmente, ci sono il malaffare, l’interesse privato, il potere familistico.
Se, superata l’emotività del fatto e reso il dovuto cordoglio alle vittime, si vuole contestualizzare ciò che è successo a Genova, una delle cose che si possono fare è rivedere la bellissima pièce di teatro civile di Marco Paolini sul disastro del Vajont, oppure l’altrettanto istruttivo film su quel fatto di Renzo Martinelli. Si trovano anche su YouTube. Durano un paio d’ore, durante le vacanze si può fare. Sono la fotografia dell’Italia che costruì il ponte di Genova. Se poi, nonostante tutto, ci si vuole strappare un sorriso, si può guardare uno dei primi film di Alberto Sordi, quelli ambientati nell’Italia del boom e dei cumenda, con le Seicento multipla e le Millecento nere. E’ un riso amaro, però.
Bisognerebbe chiedersi, poi, cosa possiamo imparare da ciò che è accaduto. Oggi viviamo una stagione simile a quella di allora: al posto del boom economico e delle grandi opere abbiamo Internet, le reti di socializzazione e la tecnologia informatica. Ne siamo entusiasti, come i nostri nonni lo erano dei ponti e delle dighe degli anni Sessanta; anche noi rischiamo di non misurarne esattamente le incognite, perché siamo figli di un’epoca in cui tutto ciò non esisteva. Come allora, anche noi stiamo facendo un enorme esperimento collettivo, cercando nuove frontiere, non più con il cemento armato, ma con il computer. Non mancano neppure né gli interessi oscuri, quelli dietro le notizie falsificate e le tante Cambridge Analytica, né le debolezze strutturali, come l’incapacità di Facebook di filtrare le notizie false.
Pensiamoci, prima di lasciare alle prossime due generazioni non ponti che si sbriciolano, ma una società civile non più capace di distinguere il vero dal falso, in cui si sarà perso il valore della conoscenza, dove a cadere non saranno le infrastrutture di cemento, ma le fondamenta stesse della convivenza. Memento.
Fausto says:
Salve Luca,
non sono totalmente d’accordo sull’accostamento Vajont-Ponte Morandi-Internet. La diga del Vajont era costruita bene, dal punto di vista tecnico, e infatti resistette alla pressione dell’acqua spostata dalla valanga. Era il posto a essere stato scelto male, forse su pressioni degli interessi economici in gioco.
Il ponte Morandi è durato 50 anni, non so se sia tanto o poco, ma il calcestruzzo si consuma nel tempo e anche altri viadotti hanno bisogno di interventi, come hanno dimostrato i filmati di cittadini presi giustamente dalla paura. Le infrastrutture, specialmente quelle per cui si pagano fior di pedaggi, vanno sottoposte a manutenzione.
Quanto a Internet, i danni veri o presunti penso siano già davanti agli occhi. Secondo me le vere incognite del nostro prossimo futuro sono i cambiamenti climatici, la sopravvivenza in un mondo “plastificato” e l’avvento dell’intelligenza artificiale. I primi due sono figli anch’essi di leggerezze industriali che ormai bisognerebbe abbandonare. La terza spero venga utilizzata oculatamente.
Cordialmente
Luca Lovisolo says:
Buongiorno Fausto,
E’ fatto notorio che la tragedia del Vajont non fu causata dal crollo della diga ma dall’errata valutazione della composizione del sottosuolo dei monti circostanti l’invaso, le cui pendici franarono rovinosamente, causando la tracimazione dell’invaso stesso e l’allagamento della valle sottostante. Peraltro, nel mio intervento il fatto che la diga non sia crollata è anche precisato. Non è questo né l’elemento scatenante della tragedia del Vajont, né il punto da cui partono le mie considerazioni. In quel caso, le leggerezze riguardarono aspetti diversi dalla costruzione materiale, ma ci furono e nacquero nello stesso clima storico e sociale. Su Internet ci resta ancora molto da imparare, lo dimostra l’incapacità dei grandi attori come Facebook di contrastare l’abuso delle loro piattaforme da parte di divulgatori di notizie false e persino gruppi terroristici. Condivido le altre preoccupazioni su ambiente e intelligenza artificiale, quest’ultima in particolare se applicata agli armamenti, come si comincia a progettare. Cordiali saluti. LL