La discussione sul Patto ONU sulle migrazioni si accende anche in Italia. Il Patto è controverso: presta il fianco a strumentalizzazioni politiche, sia favorevoli sia contrarie. Guardato stando fuori dalle contrapposizioni fra le parti, il documento suscita varie perplessità. Un accordo non vincolante, in diritto internazionale, è un atto che può essere comunque molto influente.
Dopo un periodo di silenzio, in cui del Patto ONU sulle migrazioni si è parlato in altri Paesi ma poco in Italia, la discussione si accende anche a Roma. Il Patto è controverso: presta il fianco a strumentalizzazioni politiche, sia favorevoli sia contrarie, lanciate non di rado da persone che con tutta evidenza non lo hanno letto. Guardato stando fuori dalle contrapposizioni fra le parti, il documento suscita in effetti alcune perplessità. Vediamo perché.
Il Patto non è un accordo vincolante. Significa che contiene delle raccomandazioni alle quali gli Stati sono invitati ad attenersi, ma non sono obbligati ad attuarne il dettato, come avviene invece per i trattati aventi valore giuridico. Non bisogna credere, per questo, che il Patto produca meno effetti. Un accordo non vincolante, che in diritto internazionale si definisce anche soft law, è un atto politico che può essere molto influente, sebbene non sia costrittivo.
Per citare un esempio di accordo non vincolante che ha avuto tuttavia grande valore ed efficacia politica, si può ricordare l’Atto finale di Helsinki (1975), che ha rappresentato per trent’anni una base di cooperazione e sicurezza nell’Europa della Guerra fredda e per la difesa dei diritti umani nei Paesi dell’Est. A quell’atto si ispirarono movimenti poi rivelatisi storicamente determinanti: tra questi, nell’allora Cecoslovacchia, Charta ’77, fra i cui protagonisti vi fu Václav Havel. L’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa (OSCE), tuttora importantissima per gli equilibri del Continente, prese le mosse dallo stesso atto. Proprio per la difficoltà di radunare gli Stati intorno a normative cogenti, nel diritto internazionale gli accordi non vincolanti esercitano una pressione morale talvolta più convincente delle norme imperative.
Per contrastare le critiche mosse al Patto ONU per le migrazioni si è spesso risposto che firmarlo o no farebbe poca differenza, perché non è vincolante. Come appena detto, non vincolante non significa inutile. In ogni caso, poi, un documento si firma se si è convinti del suo contenuto, oppure non lo si firma, quale che sia il suo grado di imperatività.
Quanto al merito del Patto, lascia perplessi che nei suoi 23 punti siano regolate materie già largamente presenti in altre disposizioni: non vi è nulla di sostanzialmente nuovo. Il contenuto combina punti di mera portata amministrativa e più alate dichiarazioni di principio. E’ lecito chiedersi quale sia il contributo di novità che il Patto aggiunge, rispetto alle disposizioni già esistenti. Può avere un valore di codifica: essere, cioè, una fonte organica che raccoglie in modo sistematico i principi sulla materia della migrazione sinora dispersi in normative diverse. E’ difficile vederci qualcosa di più.
Il Patto si rivolge a tutte le categorie di migranti, indipendentemente dal loro status giuridico. Non è vero, però, sebbene lo si sia sentito affermare anche da personalità di rango, che il Patto comporterebbe il superamento della differenza tra migranti economici e rifugiati. Non solo non vi è alcun riferimento a tale intento, ma, per ragioni gerarchiche, il Patto non può prevalere sui trattati internazionali e sulle norme di diritto interno che regolano la classificazione dei flussi migratori. Allo stesso modo, è falso che il Patto introdurrebbe un diritto generalizzato alla migrazione. L’instaurazione di un tale diritto influenzerebbe il controllo delle frontiere e la sovranità degli Stati. Sarebbe tecnicamente irrealizzabile, sulla base di un accordo di questo tipo.
Il Patto sembra dedicare un’attenzione del tutto marginale alla soluzione dei problemi che stanno alla radice delle migrazioni: ne parla all’obiettivo 2., ma per il resto considera le migrazioni come fatto connesso all’esperienza umana e pressoché esclusivamente virtuoso. Non fa cenno ai possibili problemi sociali e culturali generati dai flussi migratori nei Paesi di arrivo, se non indirettamente, introducendo una raccomandazione a combattere i fenomeni di razzismo, a impedire la diffusione di messaggi improntati all’odio razziale e a favorire una narrazione positiva del fenomeno migratorio.
L’affermazione è apprezzabile, sebbene le condotte commesse per odio razziale siano già punite nei codici penali degli Stati. Non convince, però, il richiamo a favorire una narrazione positiva delle migrazioni: la gestione dei flussi migratori ha conseguenze culturali e sociali reali e non tutte positive. Non le si rimuove dipingendole con positività nei media. Una simile affermazione, poi, lascia la spiacevole sensazione che lo Stato debba influire sulla comunicazione pubblica per favorire l’una o l’altra lettura dei fenomeni sociali. Si preferirebbe non leggere più affermazioni di questo tipo, specialmente in un patto internazionale.
E’ bene che il Patto ponga l’accento su alcuni diritti fondamentali dei migranti, benché già regolati in altre convenzioni, ma pur sempre migliorabili. Non fa alcun riferimento, però, a doveri e responsabilità che i migranti devono pur assumersi verso i Paesi che li accolgono. Ne sortisce un’immagine del migrante come portatore esclusivo di bene, in una società ideale che ha risorse e disponibilità di accoglienza potenzialmente illimitate, nella quale lo straniero non può che portare un arricchimento culturale e materiale a una popolazione locale dotata per forza di tutti gli strumenti intellettuali e materiali per relazionarsi con il diverso, spesso anche molto diverso. Il Patto sembra trascurare tutte le oggettive questioni di carattere etnico, religioso e sociale che la crescente immigrazione degli ultimi anni sta impietosamente portando alla luce in Europa.
Ancora una volta, si pongono essenzialmente obblighi a carico del Paese in cui i migranti arrivano, che li deve accogliere e comprendere, ma si evita quanto più possibile di rendere attenti i migranti stessi sulla necessità di attenersi a doveri fondamentali verso la cultura che li ospita. E’ fuor di dubbio che il migrante, soprattutto se proveniente da Paesi in via di sviluppo, è parte debole, rispetto al Paese di arrivo, pertanto richiede maggior tutela. Il Patto, però, sembra ancora troppo improntato, purtroppo, a una vecchia logica «ricco cattivo contro povero buono» che deforma già a sufficienza l’approccio alla questione migratoria.
Guardando alle migrazioni come le si è vissute negli anni più recenti e alle loro conseguenze, quella del Patto sembra esserne una lettura largamente incompleta e non convincente. Il documento afferma esplicitamente, al punto 8., che la migrazione è un’esperienza connessa alla storia umana e che ha solo impatti positivi. Non distingue tra migrazione volontaria, di coloro che scelgono di recarsi in un Paese diverso dal proprio per cercare opportunità senza essere obbligati ad abbandonare il proprio, dalla migrazione forzata, quella di coloro che per ragioni politiche, economiche o ambientali devono per forza lasciare la propria terra (questa distinzione e cosa ancora diversa dalla distinzione fra rifugiato e migrante economico).
Affermare ciò significa accettare la migrazione come fatto inevitabile, congenito all’essere umano e comunque virtuoso, anche per coloro che non la vogliono. E’ vero che i mutamenti in corso nel mondo causano l’intensificarsi dei flussi migratori di ogni genere: tuttavia, delude leggere in un patto internazionale, proclamato solennemente, con una buona dose di cinismo, che di fronte ai problemi che causano le migrazioni bisogna accettare come dato naturale la peggiore delle soluzioni, cioè che le popolazioni coinvolte debbano spostarsi a migliaia di chilometri dalle loro origini, per giunta come «fonte di prosperità, innovazione e sviluppo sostenibile» (!).
Una visione che sembra non tenere in alcun conto le vite dei singoli, ma rispondere piuttosto a una concezione idealista e ideologica del fenomeno migratorio. L’obiettivo a cui andrebbero indirizzate le maggiori risorse materiali e intellettuali esistenti dovrebbe essere creare le condizioni affinché milioni di persone non debbano abbandonare le proprie case e le proprie terre, ovunque possibile. Al contrario, il Patto sembra prendere atto che non vi sia alternativa al loro sradicamento e trasferimento verso Paesi lontanissimi e diversissimi, in conseguenza dei fenomeni sociali, ambientali e politici in corso.
Ciò che lascia più interdetto chi osserva il Patto conoscendo le logiche del diritto internazionale è l’inefficacia di questo accordo rispetto ad alcune concrete debolezze della normativa odierna in materia di migrazioni. Alcuni trattati, e in particolare la Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati (1951), sono ormai datati. Furono concepiti per un mondo completamente diverso da quello di oggi, oppure per altre fattispecie (ad esempio, per i flussi migratori europei interni dopo il crollo del Muro di Berlino). Vi sono norme sui respingimenti che richiederebbero ormai una profonda revisione e sistematizzazione: si prestano ad abusi e costituiscono situazioni giuridiche circolari in cui gli Stati non riescono a espellere neppure i migranti che si macchiano dei peggiori delitti. Vero che il Patto affronta anche la fattispecie dei respingimenti, dichiarando alcuni principi di base, anch’essi non nuovi. Sin quando, però, non si modificherà la legislazione cogente in materia, affermare che deve essere facilitato il rientro e il reinserimento dei migranti che ritornano nei Paesi d’origine resta una lodevole ma inefficace dichiarazione d’intenti.
La realtà della migrazione è cambiata profondamente, negli ultimi anni. Molti problemi, abilmente cavalcati dai politici, sia da quelli critici sia da quelli entusiasti verso i flussi migratori, hanno radice nella legislazione esistente, ormai inadeguata a regolare una fattispecie profondamente mutata, rispetto a quella da cui partirono i legislatori dei decenni passati. Il Patto non risponde a questo problema di fondo. Riafferma alcuni principi facilmente condivisibili, ma c’è da chiedersi seriamente se, anziché profondere energie in un documento che non sembra portare nulla di nuovo, non sarebbe stato meglio concentrare gli sforzi su una seria rinegoziazione e compattazione delle norme vincolanti esistenti, adeguandole alle mutate condizioni del pianeta. Quanto meno, aggiornarne gli aspetti che con maggiore evidenza sono causa di abusi e malcontento, che si trasformano nelle tensioni sociali che ben conosciamo nei Paesi di arrivo dei migranti.
Questo compito sarebbe meno clamoroso, meno redditizio di consensi per chi ama le grandi affermazioni di principio, ma forse aiuterebbe di più, per avere norme chiare e adeguate ai tempi, togliendo legna dal fuoco a chi, da una parte e dall’altra, utilizza le migrazioni come strumento di consenso. Resta la tenue speranza che il Patto possa costituire, in un futuro possibilmente non troppo lontano, almeno una base concettuale per una tale riforma. Sarebbe, forse, l’unico modo per non considerarlo un’occasione perduta.
Un funzionario del Governo tedesco, nei giorni scorsi, ha osservato che Berlino firmerà il Patto perché in Germania i principi che elenca sono già applicati da tempo. E’ possibile che tutti i Paesi che firmano l’accordo abbiano ragionato allo stesso modo. Ne riconoscono, indirettamente, la sostanziale ininfluenza. Altri Paesi non firmeranno l’accordo, oppure lo sottoporranno a dibattito parlamentare (questo è il caso di Italia e Svizzera); taluni lo hanno accettato con riserve interpretative (Paesi bassi). Ciascuno ha colto il vantaggio politico interno più immediato per sé, in base all’orientamento che rappresenta, consapevole che il documento non sembra causare sconvolgimenti. Non resta che utilizzarlo come argomento di propaganda, di qua o di là del fronte che divide i due schieramenti pro e contro migranti, secondo la logica che si è installata intorno al fenomeno.
Non sarebbe la prima volta, che patti internazionali solennemente firmati e faticosamente negoziati finiscono nel dimenticatoio, perché malati d’eccesso d’idealismo e insufficiente determinatezza, rivelatisi tardivamente meri strumenti di propaganda per le parti in campo. Nel 1974 fu firmata la «Carta dei diritti e doveri economici degli Stati,» promossa dalle Nazioni unite e simile, per alcuni aspetti, al Patto sulle migrazioni, anch’essa con valore non vincolante. Scopo del documento era, nientemeno, la costruzione di un ordine economico mondiale più equo. La Carta si è rivelata una lunga affermazione di sani principi rimasti largamente lettera morta, proprio per la carente considerazione della realtà fattuale.
Compiere un analogo passo falso con il Patto per le migrazioni lascerebbe irrisolti i molti problemi esistenti su questo terreno e non aiuterebbe certo a rafforzare il ruolo del diritto internazionale, già fin troppo minacciato da chi lo vorrebbe sostituire tout court con la legge del più forte. Su una cosa il Patto afferma una verità non discutibile, sebbene anche questa non nuova: la questione migratoria può essere risolta solo globalmente, non dai singoli Paesi.