Afghanistan: invasione sovietica e fatti di oggi

Afghanistan: invasione sovietica e cosa succede oggi
Mosca, Palazzo della gioventù, Busto di Lenin | © Steve Harvey

Afghanistan: invasione sovietica e fatti di agosto 2021 sono legati da elementi chiave. Gli stessi che hanno causato la sconfitta dell’Occidente. Le foto in bianco e nero che testimoniano di una modernità che non piaceva a tutti. Una guerra che doveva concludersi con un’azione dimostrativa si trasformò in tragedia incomprensibile. L’analogia tra le parole dei leader di allora e gli argomenti di quelli di oggi.


Negli ultimi giorni del 1979 si diffonde nel mondo la notizia dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. I sovietici la spiegano come «aiuto fraterno» richiesto da un governo amico, fondato sull’ideologia comunista. Questa formulazione, in Occidente, viene ridicolizzata: nell’invasione si vede un’ennesima affermazione dell’influenza sovietica, come a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968. È così anche in Afghanistan, ma l’intervento militare di Mosca è stato davvero richiesto dal governo di Kabul, incapace di governare il territorio. Questa è una chiave indispensabile, per comprendere la sconfitta occidentale in Afghanistan dell’estate 2021.

Dopo la Seconda guerra mondiale, nella quale l’Afghanistan mantiene la neutralità, re Zahir Shah inizia un’opera di modernizzazione. Nel 1964 promulga una Costituzione che avvicina il Paese alle monarchie costituzionali occidentali. Riesumando il vecchio trattato del 1921 sull’amicizia tra i due Paesi, lega politicamente l’Afghanistan alla confinante Unione sovietica e affida ai costruttori di Mosca la realizzazione di nuove infrastrutture, a fianco di quelle erette prima della guerra in collaborazione con la Germania nazista.

Risalgono a quel breve periodo costituzionale, la seconda metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, i filmati e le foto in bianco e nero diffuse oggi in Internet, nelle quali si vedono ragazze afghane in minigonna e giovani in maglietta, che sorridono lungo le ampie strade asfaltate e sulle scalinate dell’Università di una Kabul alla moda, che diventa anche uno dei centri accademici più rinomati dell’Asia centrale.

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Re Zahir Shah e la modernità non piacciono a tutti

È sbagliato credere, però, che la modernità piaccia a tutti. Lo stile di vita occidentale convince la popolazione più urbanizzata, a Kabul e in pochi centri. Già nei primi anni Settanta comincia la rivolta: i capi religiosi, che detengono il consenso e il potere di fatto nel resto del Paese, condannano la modernizzazione, forti del sostegno della popolazione rurale legata alle tradizioni. A Kabul si moltiplicano i disordini, vanno in frantumi le vetrine delle edicole e delle librerie che vendono stampa sovietica e occidentale. Le imprese di Mosca che costruiscono infrastrutture vengono additate come corruttrici dei valori religiosi.

Con una pressante campagna fatta di stampa, volantinaggi e manifesti, la presenza dell’Unione sovietica viene condannata, ma non perché Stato comunista: perché portatrice di una cultura atea e occidentale. Intanto, lo stretto legame con Mosca fa temere a Pakistan e Iran una perdita d’influenza sull’Afghanistan. Questi due Stati cominciano a sostenere gruppi di resistenza tradizionalisti contro il governo filosovietico di Kabul. Nel 1973 un colpo di Stato spodesta il re afghano, che ottiene asilo politico in Italia. Sorge una repubblica che degenera in dittatura e conduce alla rivoluzione dell’aprile 1978. Ascende al potere il Partito popolare democratico dell’Afghanistan, di orientamento comunista.

Afghanistan, invasione sovietica: esitazioni e illusioni

Nemmeno i comunisti afghani sconfiggono la resistenza dei religiosi alla modernizzazione. Se ne capisce il motivo quando si guardano le immagini dei congressi del partito, nei notiziari sovietici di allora: uomini in giacca e cravatta, donne vestite e pettinate all’occidentale che siedono in moderne sale convegni di Kabul. Appena le cineprese si spostano fuori città, il panorama arretra di secoli. È tra le casupole di pietra nelle valli, tra le donne velate e gli uomini dalle lunghe barbe, che i religiosi, il potere effettivo del Paese, guidano l’Afghanistan.

Il governo comunista non riesce a controllare il territorio e chiede ripetutamente l’intervento militare dell’Unione sovietica. Mosca esita, invia segretamente supporto tecnico ed economico, organizza manovre militari dimostrative al confine con l’Afghanistan, ma non basta. La situazione nel «Paese A» – come viene definito nei documenti del Comitato centrale del Partito comunista sovietico – peggiora. Il punto di svolta è l’ascesa al potere del nuovo presidente afghano, Hafizullah Amin: senza l’aiuto dell’Unione sovietica, Amin minaccia di chiedere soldati agli Stati uniti. Come ricorda Aleksandr Ruckoj, pilota militare e poi uomo politico russo, i sovietici rompono gli indugi per il timore che gli statunitensi mettano piede in un Paese ai loro confini. Il Cremlino decide l’invio di truppe aeree e di terra, forze speciali, spionaggio e controspionaggio. Fra i primi atti delle forze di Mosca, due giorni dopo la loro partenza per Kabul, vi sarà l’uccisione del malfidato presidente Amin.

L’invasione comincia senza ordini operativi

L’invasione comincia il 25 dicembre 1979. I vertici miliari non danno ordini operativi sul terreno: si pensa che la sola presenza dell’esercito di Mosca e la sostituzione del presidente ucciso basteranno a tacitare i disordini e a convincere i religiosi ad assoggettarsi al governo laico e comunista. Non basteranno, e sarà una tragedia: «Un errore grossolano, un errore spesso peggiore di un delitto. Non capisco che bisogno ne avevamo,» dirà Žores Alfërov, scienziato sovietico premio Nobel per la fisica nell’anno 2000 e Deputato del popolo dal 1989 al 1992.

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Si legge, talvolta, che se il regime comunista afghano avesse potuto agire senza la resistenza dei religiosi, sostenuta dall’Occidente, tutto l’Afghanistan sarebbe diventato come Kabul, con le ragazze in minigonna e i giovani in maglietta. È improbabile. Nel 1985, dopo cinque anni di guerra e perdite ingenti di uomini e mezzi, il governo di Kabul e l’armata sovietica insieme controllano a fatica il venti percento del Paese.

I Mujahidin controllano l’Afghanistan: invasione sovietica respinta

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Il restante ottanta percento è in mano ai Mujahidin, i combattenti religiosi. Ricevono sostegno dagli Stati uniti, dall’Arabia saudita e da ogni altro soggetto che abbia interesse a opporsi all’espansione sovietica nella regione, per ragioni geopolitiche o confessionali. L’Occidente sfrutta senza scrupoli l’elemento islamico e integralista, lo dimostrano le dichiarazioni e gli atti inequivocabili dei dirigenti statunitensi di quel tempo.

La vera forza dei Mujahidin, però, è nella conoscenza del territorio e nel sostegno della popolazione: esclusi i circoli minoritari più modernizzati, gli afghani non vogliono gli «occidentali» sovietici. Con le armi portatili inviate dagli statunitensi, grazie alla copertura offerta dalla popolazione e dai religiosi, i Mujahidin vincono contro gli elicotteri e i carri armati sovietici, conducendo una guerriglia di montagna alla quale i soldati di Mosca non sono preparati.

A raffigurare nel dettaglio questo scenario è Vasilij Christoforov, luogotenente generale dell’Armata rossa e collaboratore del KGB sovietico in Afghanistan. Oggi è un apprezzato storico di guerra e non risparmia critiche e verità scomode, nei tre libri che ha dedicato al conflitto in cui lui stesso ebbe ruolo attivo.

Afghanistan, invasione sovietica e fatti di oggi: la stessa sconfitta

A metà degli anni Ottanta è chiaro che i sovietici in Afghanistan non possono vincere la guerra, non possono proseguirla e non possono neppure uscire da quello scenario senza perdere la faccia. A nulla valgono i tentativi di Mosca d’ingraziarsi i Paesi islamici, instaurando rapporti preferenziali, invitando al Cremlino i leader di molti Stati mediorientali e organizzando nel 1986 una conferenza islamica a Baku, nell’Azerbaijan allora sovietico, per mostrare ai religiosi afghani che l’Unione sovietica non è nemica dei musulmani.

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Quando Grigorij Romanov, membro del Comitato centrale del Partito comunista sovietico, chiede al colonnello generale Grigorij Krivošeev, comandante della regione militare di Turkestan: «Colonnello, quando vinciamo in Afghanistan?» il colonnello gli risponde: «Con il contingente attuale, in Afghanistan non vinceremo. Se non mandiamo altri uomini per sigillare la frontiera con il Pakistan, bisogna ritirare le truppe dall’Afghanistan.» «Ma questa è una sconfitta!» replica Romanov. «No – prosegue il colonnello – non è una sconfitta, è una ritirata, ma ritirarsi è necessario. Non si può combattere contro la popolazione.»

E’ così che un’operazione che doveva concludersi con un dispiegamento dimostrativo, della quale i cittadini sovietici non vengono informati, si trasforma in catastrofe. Sostenere il governo afghano affinché riesca a controllare l’intero Paese si rivela impossibile. Nel 1986, su consiglio del loro ambasciatore a Kabul, i sovietici spingono al vertice del Partito comunista e poi dello Stato afghano Mohammad Najibullah. Questi fa una dichiarazione che non suona nuova, alle nostre orecchie: «In Afghanistan non esistono le condizioni per costruire una società socialista: la maggioranza della popolazione non la accetta» (eppure, è l’uomo dei sovietici e deve aiutarli a uscire dal pantano). Nell’agosto 2021, quando i Talebani riprenderanno il potere a Kabul, un dirigente religioso farà una dichiarazione simile: in Afghanistan non vi sarà democrazia, perché questa non ha alcuna base nel Paese.

Il ritiro sovietico è più ordinato, ma le conseguenze sono le stesse di oggi

Nel luglio 1986 Michail Gorbačëv annuncia l’inizio del ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan. Le sue parole, riascoltate oggi, sorprendono per la loro analogia con quelle che pronunceranno Donald Trump e poi Joe Biden sul ritiro statunitense: «Siamo in Afganistan da sei anni – dice Gorbačëv – e, se non cambiano le cose, continueremo a combattere per venti, trent’anni. Vogliamo combattere in eterno, se i nostri soldati non riescono a risolvere la situazione? Dobbiamo compiere il ritiro al più presto.»

Il ritiro comincia. Dura due anni e mezzo. Si conclude il 15 febbraio 1989, sotto il comando di Boris Gromov, luogotenente generale della Quarantesima armata, la protagonista di nove anni e due mesi di guerra inutile. Sull’operazione di ritiro, Gromov ha scritto un libro, Contingente limitato (Ограниченный Контингент): era la definizione delle le truppe sovietiche inviate in Afghanistan, all’inizio delle operazioni.

Il ritiro sovietico del 1986-89 è meglio organizzato di quello occidentale del 2021, ma le sue conseguenze sono simili. Il governo afghano chiede ai sovietici di lasciare sul terreno un numero consistente di soldati, per proteggere la fase di transizione. Mosca rifiuta. La caduta del governo e dell’esercito afghani è più lenta ma inevitabile. Gli accordi presi con il Pakistan e con i religiosi sul futuro del Paese vengono ignorati. Il comandante sovietico Viktor Fëdorovič Ermakov si sente dire dal ministro della difesa afghano: «Viktor Fëdorovič, tanto per capirci: noi, in oriente, pensiamo una cosa, ne diciamo un’altra e ne facciamo un’altra ancora.» È lo stesso sfasamento che trent’anni dopo illuderà gli Stati uniti che i Talebani avrebbero rispettato gli accordi di Doha sul domani dell’Afghanistan.

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Afghanistan, invasione sovietica e Russia di oggi: la storia per capire

Nella crescente trasparenza portata dalla Perestrojka di Michail Gorbačëv, i cittadini sovietici scoprono la tragedia dell’Afghanistan nella sua enormità. I militari dell’Armata rossa caduti si contano a decine di migliaia, immani le perdite sul lato afghano. Svjatlana Aleksievič, scrittrice bielorussa premio Nobel per la letteratura 2015, ha dedicato ai soldati sovietici in Afghanistan uno dei suoi libri più celebri, Ragazzi di zinco (>qui). Nel disordine seguito al ritiro dell’Armata rossa dall’Afghanistan sorgono e si rinforzano nuovi guerriglieri religiosi, i Talebani, che prendono il controllo del Paese. Restano al potere sino all’intervento degli Stati uniti del 2001, ma vi tornano nell’agosto del 2021. Ancora una volta, di fronte all’avanzata dei religiosi tradizionalisti, esercito e popolazione afghani non oppongono resistenza. Le parti di società più urbane e occidentalizzate, numericamente irrilevanti, tentano di fuggire o attendono il peggio.

Ecco perché l’invasione sovietica dell’Afghanistan è una chiave per capire la sconfitta del 2021. In quarant’anni, il controllo dei religiosi sulla società afghana non è diminuito, anzi è cresciuto. Nel 2001, Stati uniti ed Europa sono arrivati in Afghanistan in un contesto ancor peggiore di quello che trovarono i sovietici nel 1979, illusi, tutti, che dominare Kabul e pochi centri avrebbe trasformato l’Afghanistan in un prato fiorito; che liberare dal velo e dall’ignoranza un certo numero di donne avrebbe fatto arretrare il potere della tradizione.

La tradizione resta la forza dominante

Non è stato così: oggi, le donne emancipate, i giovani che hanno studiato inglese e hanno lavorato con gli occidentali sono sotto le pietre lanciate dai religiosi, perché la tradizione li rifiuta. La vera autorità del Paese resta quella religiosa. Ancora dal racconto del comandante Ermakov: «Potere supremo di ogni tribù era, come sempre, il mullah. Il mullah era re, soldato, comandante: tutto ciò che diceva era un ordine e bisognava farlo.»

Circolano molte domande sul ruolo della Russia in Afghanistan, dopo l’abbandono occidentale. È difficile fare ipotesi sul futuro, ma vi sono due certezze sul presente. La prima è che la memoria della guerra in Afghanistan è una ferita aperta anche nella Russia di oggi. C’è ancora chi chiede conto dei propri morti e vuole che gli si spieghi cosa mai ci andarono a fare, i soldati sovietici in Afghanistan. La seconda certezza è che proprio la campagna militare sovietica rafforzò l’Islam politico in tutta la regione. Contagiò anche la Cecenia e il Daghestan, facenti parte della Russia. Putin deve la sua fama di uomo forte all’aver fatto cessare i combattimenti di matrice religiosa nelle regioni russe a maggioranza musulmana.

Oggi, in quei remoti luoghi della Russia non si spara più, ma basta buttare un cerino e tutto può riesplodere. Qualunque passo muoverà la Russia in Afghanistan, poggerà su un terreno minato dalle memorie di una guerra catastrofica e dal traballante presente delle sue regioni sudorientali.

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Luca Lovisolo

Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Il mio corso «Capire l'attualità internazionale» accompagna chi desidera comprendere meglio i fatti del mondo. Con il corso «Il diritto per tradurre» comunico le competenze giuridiche necessarie per tradurre testi legali da o verso la lingua italiana.

Commenti

  1. Elena ha detto:

    Come sempre, articoli interessanti e ricchi di spunti.
    A proposito di Pakistan: mi chiedo che ruolo possa avere nell’equilibrio geopolitico la questione della linea Durand. Che tipo di ambizioni nutre il Pakistan nei confronti del suo vicino, e come si posizionano i vari gruppi etnici afghani nell’ “area Durand” rispetto allo stato confinante? È possibile reperire qualche fonte attendibile? Grazie

    • Luca Lovisolo ha detto:

      Grazie per l’apprezzamento. Il Pakistan è un’altra mostra dell’ipocrisia occidentale e della mancanza di una seria politica estera in quella regione. Si pone come alleato dell’Occidente nella lotta al terrorismo, che ormai è diventata l’alibi per ogni cosa. Ospita basi statunitensi, ma nel frattempo è in Pakistan che trovano sostegno i Talebani e lo trovarono i Mujahidin, che contrastarono vittoriosi l’esercito sovietico anche servendosi di informazioni provenienti dai servizi segreti USA stanziati in Pakistan. Il confine tra Pakistan e Afghanistan è di fatto incontrollabile, perché abitato da popolazioni per la quali l’appartenenza tribale prevale su quella nazionale. I sovietici capirono che la loro avventura in Afghanistan era fallita quando si accorsero che avrebbero dovuto dislocare contingenti militari enormi per bloccare quella frontiera, dalla quale i combattenti religiosi ricevevano rifornimenti e armi occidentali. Decenni dopo, Osama Bin Laden si rifugiò proprio in quel territorio confine, dove venne poi individuato e ucciso dall’esercito USA. In contrapposizione all’India, il Pakistan cerca di guadagnarsi un ruolo di media potenza regionale verso gli Stati di religione islamica dell’area, ma la sua situazione interna è instabile. Come con l’Arabia saudita, l’Occidente ha bisogno del Pakistan come alleato e ne tollera molte condotte che altrove condanna con parole roventi. I dirigenti pakistani, da parte loro, dimostrano di saper sfruttare molto bene questa rendita di posizione.

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Lavoro come ricercatore indipendente in diritto e relazioni internazionali. Con le mie analisi e i miei corsi accompagno a comprendere l'attualità globale chi vive e lavora in contesti internazionali.

Tengo corsi di traduzione giuridica rivolti a chi traduce, da o verso la lingua italiana, i testi legali utilizzati nelle relazioni internazionali fra persone, imprese e organi di giustizia.

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