Conclusa nei giorni scorsi la replica in chiaro dello sceneggiato televisivo dedicato alla catastrofe di Černobyl’. Alcune riserve sulle prime puntate sono state smentite da approfondimenti intervenuti negli episodi successivi, altre invece sono state confermate o aggravate. La più grande assente di tutto lo sceneggiato è l’Ucraina. Le lacune non devono sminuire un prodotto che ha molti meriti.
Si è conclusa nei giorni scorsi sull’emittente italiana «La 7» la replica in chiaro dello sceneggiato televisivo dedicato alla catastrofe di Černobyl’, prodotto da HBO. Avevo pubblicato qualche considerazione dopo la prima serata (>qui), ora torno sull’argomento a proiezione terminata. Alcune riserve che avevo avanzato nel primo articolo sono state smentite da approfondimenti intervenuti negli episodi successivi, altre invece sono state confermate o aggravate. Nella prima serata, l’esplosione all’origine della catastrofe nucleare sembrava prodursi quasi come una fatalità: non si percepiva, o quanto meno non risultava sufficientemente chiaro, che l’evento ebbe causa in una serie di incredibili negligenze umane.
La sceneggiatura rimedia a questa manchevolezza nell’ultima puntata, nella quale si rappresenta il processo che condannò i responsabili del disastro. Chi conosce già lo sviluppo degli eventi avverte la mancanza di una narrazione più fedele dei fatti avvenuti in sala comandi, all’inizio dello sceneggiato; per il telespettatore che non li conosce, scoprirli alla fine è un colpo di scena di sicura efficacia.
Emergono bene, questa volta, le divergenze tra l’ingegnere capo Djatlov e i suoi sottoposti, le minacce di trasferimento in luoghi assai meno attraenti e le temute delazioni agli organi del Partito, che nell’Unione sovietica potevano stroncare per sempre la migliore delle carriere. Si parla anche della prima esplosione, quella che danneggiò l’interno del reattore, impedendo il movimento delle barre di boro che avrebbero potuto frenare la reazione e forse impedire la catastrofe. .
Le nuove puntate hanno confermato la capacità della produzione di ricostruire luoghi e ambientazioni, fedeli persino nei tratti delle persone: il Djatlov che siede nei banchi del processo, durante lo sceneggiato, è pressoché uguale, anche negli atteggiamenti, al vero Djatlov, che rilasciò interviste ancora poco prima della sua morte (per chi vuole, una di queste, in russo, si trova >qui).
Durante il processo, in verità, la sceneggiatura incorre in un errore giuridico piuttosto vistoso, quando parla di «Codice penale dell’Unione sovietica.» Un progetto di Codice penale sovietico unitario fu iniziato nel 1939, sotto Stalin, ma restò lettera morta. Si applicavano i codici delle singole Repubbliche: ai colpevoli della catastrofe di Černobyl’ furono addebitati i reati previsti dal Codice penale della Repubblica socialista sovietica dell’Ucraina, e precisamente l’articolo 165 (abuso di potere e d’ufficio), il 167 (negligenza) e 220 (violazione delle norme di sicurezza negli stabilimenti esplosivi).
E’ ricostruita con precisione persino la forma dei blocchi di grafite altamente radioattivi proiettati dall’esplosione sul tetto del reattore, che dovettero essere rimossi manualmente da uomini, poiché i mezzi meccanici telecomandati che si tentò di utilizzare impazzivano a causa delle radiazioni. A tratti è quasi impossibile distinguere le immagini dello sceneggiato HBO da quelle vere, girate sul posto durante le operazioni, visibili in molti documentari. Ben resa anche la triste vicenda dei minatori fatti arrivare da Tula, che scavarono un tunnel sotto il reattore per prevenire il percolamento della massa radioattiva nella falda acquifera. Non pare che lavorarono davvero nudi, come viene rappresentato nello sceneggiato, ma il loro sacrificio è tratteggiato nella giusta misura, persino nell’impressionante somiglianza fisica tra il baffuto caposquadra dei minatori nello sceneggiato e uno dei veri minatori, sopravvissuto alla tragedia e intervistato in alcuni filmati degli anni successivi.
Autentica la storia della giovane moglie che stette a fianco del marito, nell’ospedale numero 6 di Mosca (vero anche questo, incluso il numero). Non tutti, però, ebbero questa possibilità. Moltissimi destini di coloro che perirono per essere intervenuti nelle prime ore del disastro si conclusero in amara solitudine: se ricordiamo i morti della recente pandemia, che terminavano i loro giorni in un reparto d’isolamento senza il conforto e il saluto dei più stretti congiunti, avremo un’idea più precisa di quale fu la morte che attese molti di quegli operatori della centrale, fra sofferenze indescrivibili. Vero che gli operatori della sala comandi sottoposti a Djatlov, morti poche settimane dopo l’esplosione, giurarono sino alla fine di aver agito correttamente. Dal loro punto di vista, li si può comprendere: obbedivano a degli ordini, erano giovanissimi, inadatti a quel compito e non informati sull’effettivo stato della centrale.
Si conferma e si approfondisce la riserva sui toni generali della produzione. Si possono immaginare le esigenze di sceneggiatura, ma la concentrazione su poche persone-chiave, su una logica «eroe contro cattivo» non rende giustizia né dei fatti né dell’organizzazione del sistema sovietico. L’idea di introdurre un personaggio d’invenzione, come la scienziata bielorussa, può piacere o non piacere: si può condividere o no l’idea del regista di affidare a questo personaggio l’incarnazione di tutti gli esperti sovietici che affiancarono l’accademico Legasov, guardato con sufficienza dai politici ma rispettato dalla comunità scientifica. La scienziata, però, compare ovunque, assume iniziative personali e fa considerazioni che appaiono poco verosimili, se inserite nell’organizzazione sovietica. In molte scene, come in quella del reclutamento dei minatori, si riconoscono moduli espressivi della cinematografia statunitense che mal si conciliano con la realtà di quei luoghi e quegli anni.
Precipita, poi, il giudizio sull’adattamento italiano. Per tutte le puntate si sono susseguiti nomi, cognomi e toponimi pronunciati con grossolani errori, non solo: almeno in un caso, il cognome dell’operatore Toptunov, la pronuncia è incoerente fra le diverse puntate: ora Tòptunov, ora Toptunòv. Ciò significa che la direzione del doppiaggio italiano non solo non ha accertato le pronunce corrette, ma non ha neppure curato che esse fossero, quanto meno, coerenti per tutta la produzione. Alcuni errori sono davvero ridicoli e si sarebbero potuti evitare facilmente: non ci vuole molto a imparare che il nome maschile Valerio in russo si dice Valèrij, non Vàlery; poi si dice Barìs, non Bòris; Leanìd, non Leònid. Non sono scrupoli da linguista: sono errori gravi di pronuncia che denotano incuria e superficialità nella realizzazione. Siamo sicuri, infine, che Ščerbina e Legasov si dessero del tu? Sembra poco probabile. In base a quale elemento è stato deciso questo tono, nella traduzione dall’originale inglese?
Lo stesso, ancora una volta, si deve dire del programma di approfondimento che l’emittente La7 ha fatto seguire allo sceneggiato. Qui si è sfiorata la comica. La località Černobyl’ si pronuncia con l’accento sulla o, Černòbyl’. Dei due giornalisti presenti, uno dei quali vantava addirittura un passato come corrispondente da Mosca, nessuno riusciva a pronunciare correttamente quel nome: uno insisteva su Čèrnobyl’, l’altro, quello che era stato a Mosca, ripeteva in continuazione Černobìl’, con l’accento sull’ultima sillaba, alla francese. L’atteggiamento sussiegoso, lo sguardo contrito e i toni melliflui non riuscivano a nascondere che quei due giornalisti, sulla catastrofe di Černobyl’, sembravano avere ben poco da dire, nonostante i loro augusti cognomi.
Ho tentato di durar la fatica di guardare quel penoso duetto, ma anche questa volta il disappunto e il sonno hanno avuto la meglio dopo la prima mezz’ora. Ma perché devo dedicare tempo a persone che vanno in TV a parlare in modo così inaccurato? Com’è possibile che un giornalista sia stato a Mosca come corrispondente in quegli anni e non abbia imparato nemmeno come si pronuncia correttamente il nome della città dov’è accaduta la catastrofe? E noi dobbiamo ancora dargli retta?
Concludo segnalando la più grande assente di tutto lo sceneggiato sulla catastrofe: l’Ucraina, cioè la terra dove il disastro di Černobyl’ è avvenuto e che ha pagato più di tutte le sue conseguenze. Oggi l’Ucraina è uno Stato indipendente, ma allora era una repubblica facente parte dell’Unione sovietica. Lo scontro fra Kiev e Mosca fu durissimo, sulla questione della catastrofe nucleare. I dirigenti ucraini avevano ripetutamente segnalato a Mosca i continui problemi delle numerose centrali nucleari disseminate sul territorio della Repubblica, ma le loro missive erano rimaste inascoltate. Černobyl’ non fu un fulmine ciel sereno (lo spiego meglio in >questo articolo nella sezione riservata agli abbonati).
Il governo centrale di Mosca avocò a sé la gestione della catastrofe e si arrivò alla celebre parata del primo maggio 1986 a Kiev, in una città dove i livelli di radioattività avrebbero sconsigliato di tenere quella manifestazione: lo svolgimento fu imposto, per non generare allarmismo tra la popolazione, esponendo a forte rischio radioattivo migliaia di persone, tra cui molti bambini. La parata del primo maggio è uno degli episodi più tristemente noti della vicenda di Černobyl’ e di come le autorità gestirono il rischio. Non ve ne è traccia, però, nello sceneggiato, come non si parla mai di Vladimir Vasil’evič Ščerbickij, primo segretario del Partito comunista dell’Ucraina (da non confondere con Ščerbina, che è invece uno dei protagonisti della produzione).
La figura di Ščerbickij è controversa, ma fu uno degli uomini chiave di quelle ore, in Ucraina. Le testimonianze dei suoi collaboratori e della moglie lo descrivono depresso e profondamente cambiato, dopo la catastrofe di Černobyl’. Il modo in cui le autorità di Mosca avevano gestito l’emergenza lo aveva segnato, stando a quei testimoni. Ščerbickij mori nel 1989 in circostanze mai del tutto chiarite, che molti indizi sembrano però ricondurre a suicidio. Lo sceneggiato HBO ha molti meriti, ma l’aver ignorato totalmente la relazione fra Ucraina e governo centrale di Mosca nella vicenda di Černobyl’ è una pecca difficile da perdonare, che toglie molto alla possibilità di capire i rapporti di potere di allora e la gestione di una catastrofe di quelle proporzioni, che è invece lo scopo dichiarato dello sceneggiato.
I registi e gli sceneggiatori non sono degli storici. Le lacune, anche vistose, non devono sminuire un prodotto che ha avuto il merito di riportare all’attenzione del grande pubblico una catastrofe ecologica, sociale e politica avvenuta pochi decenni or sono, eppure già largamente dimenticata.