Le ultime considerazioni sul caso SeaWatch. Un caso analogo, avvenuto pochi giorni dopo a Malta, aiuta a comprendere e chiarire i fatti di Lampedusa. Il provvedimento che ha escluso il reato di resistenza a pubblico ufficiale per la comandante Carola Rackete. I dubbi che suscita un’interpretazione restrittiva delle norme sulla ricerca e salvataggio in mare. L’atteggiamento dei media.
Concludo con questo articolo le considerazioni sul caso SeaWatch, che ha occupato per settimane l’opinione pubblica, non solo di lingua italiana. Aggiungo alcuni appunti su un fatto analogo, avvenuto nelle scorse ore a Malta, che si collega al caso SeaWatch e contribuisce a chiarirlo. Il precedente articolo sul caso si trova >qui.
Dopo l’arresto della comandante della SeaWatch, Carola Rackete, il Giudice delle indagini preliminari di Agrigento ha escluso per lei l’addebito del reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 CP), per aver disobbedito all’ordine di non attraccare al porto di Lampedusa (tralascio volutamente l’analisi di altre parti del provvedimento, che non toccano direttamente i rapporti internazionali).
Secondo il giudice, la condotta della comandante è giustificata dalla scriminante dall’adempimento di un dovere giuridico, ex art. 51 CP. Come prevedibile, il giudice non ha riconosciuto la giustificazione dello stato di necessità ex art. 54 CP. Nessuno degli occupanti della nave, infatti, era in pericolo immediato di vita o salute, come aveva confermato poco prima anche una decisione della Corte europea dei diritti dell’Uomo. La comandante resta indagata per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12 T.U. 286/98).
Una contraddizione solo apparente
Secondo le norme di diritto della navigazione, è dovere giuridico trarre in salvo le vittime di naufragio. Inoltre, secondo la Convenzione SAR del 1979 sulla ricerca e salvataggio in mare, che riprende un principio generale di diritto umanitario, le persone salvate devono essere condotte in un Paese sicuro. D’altra parte, secondo le direttive IMO del 2004, applicabili per le navi in difficoltà quando non vi sia pericolo di vita per gli occupanti, lo Stato costiero ha diritto di negare l’attracco ai propri porti, anche se ha dovere di assistenza alla nave e ai suoi occupanti in difficoltà. E’ nello spirito di tutte le norme di diritto della navigazione, infatti, tutelare il controllo degli Stati sull’accesso alle proprie coste, pur obbligandoli a prestare la necessaria assistenza.
Queste disposizioni sembrano in contraddizione, ma non lo sono. L’assistenza a una nave e ai suoi occupanti, infatti, si può prestare anche mentre questa si trova al limite delle acque territoriali o fuori dal porto. Si tutela, così, sia il dovere giuridico di assistenza all’imbarcazione in difficoltà sia il diritto sovrano di controllo sull’accesso al porto o alle acque territoriali.
Nel caso SeaWatch, è fuori discussione che la comandante Carola Rackete stesse compiendo il dovere giuridico di portare in salvo in un Paese sicuro le persone tratte dalle acque dinanzi alle coste libiche, ai sensi della norma SAR. Il compimento di tale dovere, tuttavia, poteva dirsi concluso al momento in cui la nave era giunta in prossimità dell’isola di Lampedusa. Gli occupanti potevano essere trasbordati sulla terraferma con elicotteri o altri mezzi di soccorso, se l’Italia, per sue ragioni, non riteneva di permettere alla SeaWatch di attraccare. Ciò è effettivamente avvenuto, per una dozzina di occupanti in condizioni di particolare vulnerabilità.
Non sembra, pertanto, che l’adempimento del dovere di salvataggio rendesse indispensabile attraccare al porto italiano, disobbedendo all’ordine contrario dell’autorità. D’altra parte, nei diciassette giorni di navigazione erratica al limite delle acque territoriali italiane, dinanzi all’ordine di non attraccare a Lampedusa la giovane comandante ha fatto solo deboli tentativi di chiedere assistenza ad altri Paesi del Mediterraneo considerati sicuri. Ha informato via e-mail Malta «in modo puramente formale» (sono parole sue, da una delle molte interviste rilasciate dopo i fatti), senza ricevere risposta; ha chiesto, sempre via e-mail, aiuto alla Francia, senza ricevere risposta e presumendo che la mancata risposta significasse un tacito rifiuto.
Non ha tentato altre forme di contatto, non ha preso in considerazione la Spagna e nemmeno ha provato a dirigere la sua imbarcazione verso questi o altri Paesi europei che avrebbe potuto raggiungere in meno di 17 giorni. Nella condotta della comandante Rackete sembra di vedere, oltre a una certa leggerezza, una decisione già presa di far montare la contesa con l’Italia. La convenzione SAR, da parte sua, non stabilisce che il porto di sbarco debba essere necessariamente il più vicino. Afferma, anzi, che gli Stati devono agire in collaborazione fra loro, per dare soluzione ai casi di salvataggio.
Il provvedimento del giudice di Agrigento sembra dare un’interpretazione particolarmente restrittiva alla norma SAR sul salvataggio e recupero in mare, andando fin oltre il suo dettato e facendo concludere che il dovere di salvataggio si compirebbe non solo col portare le persone recuperate in un Paese sicuro, ma attraccando materialmente la nave salvatrice alle coste dello Stato. Il provvedimento pare contraddire sia le direttive IMO sia lo spirito generale delle norme di diritto del mare, che tutelano il diritto degli Stati di controllare in ogni caso l’accesso ai porti.
La nave Alan Kurdi e la condotta di Malta
S’inserisce qui il fatto accaduto nelle scorse ore nelle acque di Malta, con la nave Alan Kurdi, della ONG Sea Eye. La nave trasportava 65 cittadini stranieri recuperati nelle acque antistanti la Libia. Respinta dall’Italia, Alan Kurdi ha diretto verso Malta, dove, come SeaWatch, è stata fermata dalle autorità al limite delle acque territoriali, perciò non ha potuto entrare in porto. Dopo aver intimato alla Alan Kurdi di non accedere alle acque territoriali e aver ordinato alla Marina militare di prendere i necessari provvedimenti, qualora la nave avesse forzato il blocco, il governo maltese ha inviato un mezzo sottobordo ad Alan Kurdi e trasbordato le persone presenti sulla nave, portandole a terra senza che la nave dovesse avanzare oltre il confine delle acque maltesi.
La condotta di Malta può apparire insolita. Deciso di sbarcare gli occupanti della Alan Kurdi, perché non far accedere direttamente la nave al porto? La procedura adottata dal governo maltese ha una precisa motivazione giuridica, direttamente collegata al caso SeaWatch dei giorni precedenti: riafferma il diritto sovrano di uno Stato di autorizzare o no l’accesso alle acque territoriali e ai porti; nel contempo, dimostra che negare l’accesso alle proprie acque non significa sottrarsi all’obbligo di prestare assistenza a imbarcazioni in difficoltà o ai loro occupanti.
Questo principio era stato indebolito dai fatti di Lampedusa: la conseguenza logica di quanto accaduto con la SeaWatch e della successiva presa di posizione giudiziaria è che qualunque comandante, in base a una propria valutazione discrezionale, può ritenersi giustificato nel disobbedire all’ordine di non accedere alle acque territoriali o ai porti di un qualunque Stato, se dichiara di portare a bordo persone vittime di naufragio recuperate ai sensi delle convenzioni SAR. Così, in questi casi, lo Stato costiero perde di fatto ogni controllo sui propri confini di mare.
La condotta di Malta, solo apparentemente illogica, riporta ordine in un contesto che poteva facilmente degenerare nella confusione. Lo Stato, superiorem non recognoscens (cioè, non riconoscendo alcuno al di sopra di sé), mantiene il diritto di autorizzare o negare alle imbarcazioni l’accesso ai porti e alle acque territoriali, due zone regolate da norme diverse, ma entrambe assoggettate alla sua sovranità. Ciò non gli impedisce di prestare l’assistenza alla quale è tenuto, moralmente e giuridicamente, alle imbarcazioni o ai loro occupanti, se si trovano in difficoltà.
Uno Stato può avere molte ragioni per negare l’accesso alle proprie acque territoriali o ai propri porti: dal pericolo di inquinamento, in caso di navi guaste o cariche di sostanze pericolose, sino al timore che una nave possa svolgere attività ostili, una volta entrata in porto, pur dichiarando le migliori intenzioni. Oltre che rispondere al principio di sovranità, perciò, il controllo sul traffico marittimo risponde a un imperativo di sicurezza.
E’ evidente che Malta non aveva nulla da temere, dall’accesso della nave Alan Kurdi ai propri porti. In passato, alla stessa nave l’accesso era stato consentito, in circostanze analoghe. I fatti di Lampedusa, però, hanno mutato il quadro e reso necessario un atto, compiuto dinanzi alla comunità internazionale, che riaffermasse, da una parte, il principio di sovranità su acque e porti, e, dall’altra, che tale principio non contraddice l’obbligo di prestare assistenza.
La relazione con i fatti di Lampedusa
Riportata alle vicende italiane, la condotta di Malta indebolisce le difese della comandante Rackete e la successiva ordinanza che ha giustificato la sua disobbedienza. Dimostra che era possibile anche in quel caso, portare a terra gli occupanti della nave, senza contravvenire all’ordine dell’autorità di non entrare in acque italiane. Da parte sua, l’Italia aveva già prelevato dalla SeaWatch e portato a terra alcuni occupanti in condizioni di particolare vulnerabilità; lo avrebbe fatto anche per gli altri, se l’urgenza di sbarcarli fosse stata oggettiva. L’Italia non aveva alcun interesse che la situazione a bordo della SeaWatch precipitasse. Se uno solo degli occupanti della nave fosse morto, Roma si sarebbe trovata sul banco degli imputati, anche dinanzi all’opinione pubblica mondiale.
Le condizioni sulla nave SeaWatch erano certamente disagiate, ma è difficile non riconoscere che il disagio era tale anche per la decisione della comandante di persistere per 17 giorni nel tentativo di attraccare in Italia, facendo solo deboli tentativi di trovare soluzioni diverse. Benché difficili, le condizioni sulla nave, in quel momento, non dovevano però essere oggettivamente tali da richiedere lo sbarco immediato degli occupanti ancora presenti, altrimenti l’Italia sarebbe intervenuta a trasbordarli come i precedenti. La valutazione che ha spinto la comandante Rackete a forzare il blocco italiano appare, alla luce di ciò, meramente discrezionale.
Un’ultima considerazione va fatta per l’atteggiamento dei media e della maggioranza dei commentatori. I fatti di Malta risultano chiaramente da un tweet del capo del governo maltese, Joseph Muscate, e dai numerosi articoli usciti sulla stampa dell’isola. Sono stati riferiti invece in modo generalmente errato o confuso dai media italiani, salvo poche eccezioni. In particolare, nessuno ne ha rilevato nel dettaglio la relazione tra il caso Alan Kurdi e il caso SeaWatch. Addirittura, l’otto luglio il quotidiano Il Corriere della Sera ha pubblicato la notizia dei fatti maltesi falsificandola, a pagina 5: «E Malta fa attraccare la [Alan] Kurdi.» Quanto accaduto a Malta è un’imbarazzante smentita della narrazione prevalente tessuta per settimane sul caso SeaWatch da media e intellettuali, allineatisi quasi senza eccezioni, non solo in Italia, a sostegno dell’azione della comandante Rackete, sebbene le sue motivazioni risultassero molto deboli sin dalle prime ore del caso.
L’inadeguatezza delle norme, conclusioni
Bisogna sottolineare ancora una volta l’inadeguatezza delle norme vigenti alle situazioni in essere nel Mediterraneo. Scritte per il salvataggio di naufraghi per incidenti, tali norme vengono oggi invocate per il controllo di flussi migratori che avvengono abusando degli obblighi di salvataggio, allo scopo di introdurre in Europa persone senza titolo d’ingresso. I cittadini stranieri che sbarcano con queste modalità hanno la possibilità di richiedere asilo ai sensi della Convenzione di Ginevra. Se viene loro concesso (statisticamente, può trattarsi di pochissimi casi), restano in Europa; se non viene loro concesso, sarà comunque molto difficile o impossibile rimpatriarli. Possono essere oggetto di un provvedimento di espulsione, la cui attuazione si scontra a sua volta con varie difficoltà. Non si può poi escludere la possibilità che, come già avvenuto tempo fa per l’analogo caso Diciotti, gli occupanti della nave si dileguino, preferendo la clandestinità, per trasferirsi in altri Paesi europei o svolgere attività nell’economia sommersa, sottraendosi a ogni controllo.
Le norme sul diritto d’asilo, sulla protezione umanitaria e sul salvataggio in mare sono state scritte in momenti storici in cui non erano presenti i fenomeni attuali. Sebbene si fondino su principi di indiscussa centralità della dignità umana, nella situazione di oggi gli obblighi derivanti da queste norme mettono gli Stati nella condizione di non poter più controllare gli ingressi sul territorio, di fronte a un’immigrazione organizzata che abusa manifestamente di questo nobile quadro normativo. Le interpretazioni restrittive delle norme in materia, come quella data ad Agrigento sul caso SeaWatch, non aiutano. Se si vogliono tutelare i principi sui quali si basa la legislazione internazionale umanitaria, di fronte ai nuovi flussi migratori e alle organizzazioni criminali che li gestiscono, è urgentemente necessario adeguare questo complesso di norme e darne interpretazioni adeguate alla realtà fattuale.
Resta aperta anche la questione degli Stati considerati sicuri. Liste incoerenti e non aggiornate fanno sì che di fatto, nel bacino del Mediterraneo, solo gli Stati europei siano ritenuti tali. Il concetto di «Paese sicuro» andrebbe poi riferito alle finalità di volta in volta esistenti. E’ difficile credere che Stati come Tunisia, Egitto o Algeria, pur non presentando un quadro democratico idilliaco, non possano prestare primo soccorso a dei naufraghi. Si contesta che da tali Paesi i naufraghi potrebbero essere rinviati in Libia, ma l’argomento è infondato. Nella normalità dei casi i naufraghi non sono cittadini libici, ma di altri Stati. Se sono vere vittime di naufragio fortuito, scampato il pericolo e ottenuto soccorso da un Paese che offra adeguate strutture di prima assistenza, non devono trascorrere il resto della loro vita in quel Paese e nemmeno essere «rimandati» in qualche luogo: tornano spontaneamente alle loro case, appena le loro condizioni lo permettono, oppure proseguono il viaggio, se intrapreso per cause lecite.
Di fronte ai crescenti abusi, l’obbligo di condurre i naufraghi in un Paese dove si applichi l’intero complesso della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo appare ridondante e si trasforma in un grimaldello per obbligare chi preleva persone in mare a condurle in Europa, anche se sprovviste di titoli d’ingresso. Non è questa la finalità delle norme internazionali sul salvataggio in mare. L’abuso non è più tollerabile.
Le norme, anche le più nobili, se applicate a realtà che non corrispondono alla loro ratio, prima o poi cessano di vivere. Sarebbe triste concedere ai trafficanti di esseri umani, a intellettuali col disco rotto e a governanti europei chiacchieroni e impreparati, la soddisfazione di aver ridotto all’inutilità, per sfinimento, i fondamenti del diritto umanitario.
Saul Laganà ha detto:
Le Sue osservazioni sono condivisibili, in alcuni passaggi inoppugnabili. Resta il fatto, per nulla secondario, che gli sbarchi riguardano una minoranza di persone rispetto al passaggio via terra. Altro aspetto importante è, a quanto risulta, la percentuale di sbarchi grazie a imbarcazioni ONG: 8% (fonte ISPI e Ministero dellß’Interno, cit. Il Post). Poco più di 3000 sbarcati negli ultimi 6 mesi (fonte UNHCR, IOM e altri, cit. Il Post).
A ciò fa da contraltare una narrazione governativa e mediatica fuori dalla realtà, che altera la percezione dell’opinione pubblica su eventi seri, importanti, che necessiterebbero di approcci razionali e strutture adeguate ad affrontare il problema. Ma razionalità e strutture all’altezza del compito sono purtroppo assenti. In compenso il problema della migrazione di uomini è da anni al centro della discussione politica, mentre vengono ignorati o sottovalutati argomenti ben più gravi e incancreniti quali: la penetrazione nel tessuto economico delle regioni del nord Italia della criminalità organizzata, il pressoché totale controllo di questa nel meridione, la corruzione, l’evasione fiscale, le condizioni del patrimonio artistico architettonico e storico del paese e potrei continuare.
Certo non è colpa Sua, se la situazione è questa; amerei però, apprezzando l’indiscutibile capacità d’analisi, poter leggere qualcosa sulle questioni da me citate. Altrimenti si rischia di fare solo da cassa di risonanza, senz’altro più dotta e argomentata, ai media, andando incontro così al pregiudizio del lettore medio.
La leggo sempre e comunque con estremo piacere.
Cordiali saluti
Saul Laganà
Luca Lovisolo ha detto:
Buongiorno,
Non tratto in questo articolo di sbarchi di altro tipo e nemmeno di ingressi via terra, perché tratto uno sbarco che coinvolge ONG e prelievo in mare, che è una fattispecie fattualmente e giuridicamente molto specifica e ben più complessa. Per lo stesso motivo non mi occupo di mafia al nord o al sud, evasione fiscale, corruzione, stato del patrimonio artistico.
Forse un giorno capirò perché, se scrivo, diciamo, un articolo sulla pasta al pomodoro, invariabilmente arrivano quelli che commentano: «Eh, ma Lei qui non parla della pasta al pesto!» Non parlo della pasta al pesto, cioè di sbarchi dai barchini e arrivi via terra, perché parlo di pasta al pomodoro, cioè della precisa fattispecie degli sbarchi che avvengono attraverso l’organizzazione di falsi naufragi e tutto ciò che segue. E’ una catena di fatti particolare e richiede più analisi di altre, perché coinvolge più soggetti e molte norme di diritto, nazionale e internazionale. Forse anche per questo, oltre che per le note prevenzioni politiche, i media, quando affrontano queste situazioni, fanno una confusione che la metà basterebbe. Scopo di questo articolo non è fare un compendio di politica migratoria italiana e nemmeno comparare i flussi, tanto meno fare retroscena o benaltrismo.
Quanto al fatto che questo articolo farebbe da «cassa di risonanza» dei media, in queste settimane ho letto tonnellate di interventi e analisi, sul caso SeaWatch. Vi ho trovato disinformazione, livore, sessismo, prevenzione politica e tante parole, ma ben di rado, per non dire mai, ho letto una chiara messa in luce dei problemi normativi e fattuali esistenti. Io ci ho provato, e i lettori sembrano aver apprezzato. Poiché i media suonavano tutt’altra musica, è impossibile che io possa essere la loro cassa di risonanza. Se pensa che sia possibile scrivere due articoli di analisi come questi allo scopo di «andare incontro al pregiudizio del lettore,» ci provi Lei, e scoprirà che la materia è molto meno pieghevole ai pregiudizi di quanto si crede, a meno, naturalmente, di essere in malafede.
Esistono dei fatti, esistono delle norme, esistono delle conclusioni, e da lì non si scappa. Questo è il mio lavoro. Se avverranno fatti concernenti sbarchi in altre forme o arrivi via terra, ne scriverò, il momento venuto, se toccheranno temi di mia competenza e interesse. Se attende considerazioni su questioni interne italiane, a meno che non siano strettamente legate a fatti internazionali, qui non le troverà, perché non è il mio lavoro. Mi sembra che di gente che esce dal seminato ce ne sia già abbastanza.
Saluti. LL
Andrea Storti ha detto:
Non mi trovo concorde su tutto, ma sono completamente d’accordo sulla questione della gestione dei flussi. Sia le leggi (europee e nazionali) non sono adatte a gestire questo nuovo fenomeno, men che meno i mezzi attualmente utilizzati. Lasciare il mediterraneo sprovvisto di imbarcazioni per il salvataggio di migranti sarebbe un errore clamoroso, il numero di morti e di arrivi non visti aumenterebbe a dismisura. D’altro canto non si può pensare di lasciare questo compito alle ONG, che alla fine sono privati con interessi più o meno lodevoli. In più sarebbe necessario che l’Europa si unisca per trovare un modo di fermare alla radice i flussi. Le soluzioni non sono accogliere tutti (anche se nel caso italiano, con un buon meccanismo di integrazione, ne avremmo forse bisogno) o chiudere i porti. Il problema è che questo fenomeno viene usato soltanto per mera propaganda e nessuno vuole risolverlo veramente.
Luca Lovisolo ha detto:
E’ vero, come ricorda Lei, che non si dovrebbe lasciare il Mediterraneo senza navi per il recupero dei naufraghi, ma è altrettanto vero che i passatori lanciano gommoni in mare proprio perché sanno che i naufraghi verranno recuperati da tali navi. Si installa una situazione circolare che non ha soluzioni, fin quando non si agisce, appunto, sull’origine dei flussi, che solo in pochissimi casi nascono da una fondata necessità di asilo politico, i fatti parlano chiaro. Cordiali saluti. LL