Le manifestazioni in Bielorussia e l’avvelenamento dell’attivista russo Aleksej Naval’nyj hanno segnato l’estate. Il mio intervento alla Commissione esteri della Camera dei deputati italiana, a inizio agosto, su Russia e conflitto ucraino: la replica del presidente della Commissione offre spunti per comprendere le radici degli eventi. Molte considerazioni sull’Ucraina valgono anche per la Bielorussia.
Nella sua replica alla mia relazione (video completo >qui), l’on. Piero Fassino cita temi che aiutano a comprendere i fatti di queste settimane. Molte considerazioni sull’Ucraina valgono anche per la vicina Bielorussia. Le affermazioni dell’on. Fassino si possono riassumere così:
- I fatti in corso in Ucraina non si comprendono senza conoscere la storia di quelle regioni, una storia complessa che va guardata dai diversi punti di vista. La Russia sarebbe nata in Ucraina, perciò Mosca avrebbe titolo a considerarla parte del proprio territorio. L’Ucraina, nel suo passato, è stata sottoposta alla dominazione di molti altri Stati. Le spinte secessioniste a favore della Russia nella parte orientale dell’Ucraina sarebbero la prova che questa è lacerata fra molte identità.
- Al termine della Guerra fredda, con la caduta del Muro di Berlino e la fine della divisione del mondo in due blocchi, l’unico Paese ad aver conosciuto una riduzione di territorio sarebbe stata l’ex Unione sovietica. La fine dell’Unione sovietica sarebbe stata esito di un progetto dell’Occidente, da ritrovare in particolare nell’operato da Zbigniew Brzezinski, Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati uniti dal 1977 al 1981. Sarebbe in base a questo progetto, che l’allora Unione sovietica si sciolse e i suoi resti si suddivisero in cinque entità: Paesi Baltici, Caucaso, Ucraina, Bielorussia e Russia.
- E’ anche grazie alla conoscenza della Storia che si può sconfiggere l’ideologia di Aleksandr Dugin, artefice del progetto Eurasia: Dugin, d’altra parte, non sarebbe il solo rappresentante della Russia di oggi.
Sin qui, in sintesi, gli argomenti del Presidente della Commissione. Vediamo ora come possiamo cogliere queste argomentazioni per comprendere meglio ciò che sta accadendo in quei luoghi.
La Russia è «nata in Ucraina?»
Che la Russia sia la prosecuzione storica dell’Ucraina è una semplificazione non disinteressata, molto cara ai russi, del processo che ha condotto alla nascita degli odierni Stati di quella regione. Sul territorio che oggi corrisponde all’incirca all’Ucraina, alla Bielorussia, a parte degli Stati baltici e della Russia occidentale esistette sino al basso Medioevo un unico Stato, denominato «Rus’,» con capitale a Kyïv (o Kiev, secondo la dizione più diffusa in italiano). Vero che la città di Mosca, che inizialmente era un anonimo insediamento di campagna, faceva parte della Rus’: tuttavia, quando Mosca cominciò a espandersi come principato autonomo, lo Stato della Rus’ era ormai l’ombra di se stesso, diviso dalle lotte di successione e travolto dalle invasioni dei Mongoli.
Mosca diede vita a un’entità nuova e distinta ed ebbe buon gioco, in quel contesto, a monopolizzare l’uso del termine Rus’ (poi divenuto Russia) riferendolo solo a se stessa. In realtà, nel territorio della vecchia Rus’ erano e sono tutt’ora insediati popoli di culture diverse fra loro e diverse dalla Russia. Affermare che oggi la Russia avrebbe motivate pretese territoriali sull’Ucraina – tutta o parte di essa – giustificandole alla luce della storia della Rus’ di Kyïv, è quanto meno azzardato, se non apertamente falso. Questa tesi dà fiato alle voci più nazionaliste di Mosca, secondo le quali la Russia avrebbe un diritto naturale di impadronirsi di tutti i territori che fecero parte dell’antica Rus’. Non è difficile imbattersi ancora oggi in leader politici russi, nazionalisti estremi, che sostengono questa posizione, tra i quali il focoso Vladimir Vol’fovič Žirinovskij.
Si aggiunga che nei territori delle attuali Ucraina, Bielorussia e repubbliche baltiche, dopo lo smembramento della Rus’, governò per secoli la confederazione polacco-lituana, che si trovò in costante contrasto con la confinante Russia. Quei popoli si allearono o assoggettarono a Mosca solo quando ciò era necessario per difendersi da nemici peggiori. La Russia sottomise poi quei territori nel 1721, vincendo la Guerra del nord e costituendo formalmente l’Impero russo.
I dati di fatto: le etnie e le lingue
La pretesa che Ucraina, Bielorussia e Stati circonvicini appartengano di diritto a Mosca si scontra con un dato di fatto: nonostante almeno tre secoli di dominazione russa, su quei territori vivono popolazioni che hanno storie, lingue e culture diverse. Sono sopravvissute nei secoli, non si sono assimilate ai russi e hanno costituito entità sempre più autonome, sino agli Stati sovrani di oggi. Le loro culture si svilupparono in secolare contatto con Polonia, Lituania, Svezia, Germania e Stati dell’Europa centrale, non solo con la Russia.
La relazione fra Ucraina e Russia, poi, non fu quel matrimonio felice che la storiografia sovietica ama raccontare. L’Ucraina si unì a Mosca nel 1654, regnante lo zar Aleksej, per intervenuti contrasti con la Polonia. Il fatto stesso che sia esistito un trattato di unione fra le due entità indica che esse erano ben distinte: se davvero la Russia («Moscovia») fosse stata la naturale prosecuzione dell’Ucraina, non vi sarebbe stato bisogno di un atto di federazione così solenne. La memoria di quell’atto è stata periodicamente celebrata con coloriti rituali sino al crollo dell’Unione sovietica. Tra le sue clausole riconosceva all’Ucraina (ai cosacchi zaporoghi, che allora ne governavano il territorio) delle autonomie specifiche, minuziosamente elencate nel trattato, prendendo quindi atto della sua alterità da Mosca.
Ancora: che bisogno avrebbe avuto lo zar di Russia di vietare per ben due volte, nel 1863 e nel 1876, l’uso della lingua ucraina, se Mosca non vi avesse visto uno strumento del risorgimento nazionale ucraino? Se l’ucraino fosse stato davvero un innocuo dialetto contadino, come sostenevano i russi, non avrebbe fatto paura a nessuno. Dietro quella lingua, invece, c’era e c’è un’identità culturale diversa da quella russa, che infastidiva Mosca sempre più. Si chiusero giornali in ucraino, si licenziarono i docenti universitari che usavano questa lingua, se ne vietò l’insegnamento nelle scuole e si rimossero dalle biblioteche le pubblicazioni in ucraino.
Gli equivoci e le difficoltà dell’Occidente
Un errore frequentissimo, in Occidente, è credere che la lingua ucraina sia presente solo nella parte occidentale del Paese, a ovest del fiume Dnipro (o Dnepr), mentre invece, sulla riva est, prevarrebbe il russo, e questo giustificherebbe le pretese di Mosca sull’Ucraina orientale. È vero che nelle regioni dell’Est ucraino il russo è più corrente, ma ciò accade nelle città: nelle campagne la situazione cambia. Il panorama linguistico dell’est Europa è difficile da comprendere, per noi occidentali, abituati a realtà dove le lingue si distribuiscono secondo confini geografici precisi, come i cantoni svizzeri o le province autonome italiane. In Ucraina, come in altri Paesi dell’Europa orientale, le differenze linguistiche si registrano fra città e campagna, fra generazioni di individui, fra rami familiari.
In passato era molto comune che nelle campagne si parlasse la lingua locale, mentre la lingua usata nelle città era definita dal gruppo socialmente ed economicamente dominante: poteva cambiare nel tempo e, nelle diverse città dell’Ucraina e degli altri Paesi della regione, non fu sempre il russo, hanno giocato un ruolo importante anche il tedesco, lo yiddish, il polacco, l’armeno. Sotto il profilo storico, per giunta, una parte importante dello sviluppo della lingua ucraina avvenne proprio nelle città dell’est, particolarmente a Charkiv. In tempi più vicini a noi, l’elemento linguistico russo in Ucraina orientale si deve in molta parte alle comunità di russi mandati in Ucraina durante l’Unione sovietica staliniana per sviluppare in quelle aree l’industria pesante e mineraria.
Tutt’oggi, in quelle zone, è frequentissimo imbattersi in cittadini ucraini di lingua russa discendenti dai migranti dell’industrializzazione sovietica, che fu e rimase prettamente russofona, anche in altre Repubbliche dell’URSS. A tutto ciò si aggiunga che le comunità etnico-linguistiche, in Ucraina, sono molto più numerose della diarchia russo-ucraino che immaginiamo in Occidente. Le lingue riconosciute dalla legge, in Ucraina, sono una quindicina. Si tratta talvolta di comunità molto piccole, ma quando si argomenta su questi temi bisogna tenere conto di questa complessità.
La nascita dell’Unione sovietica e i popoli non russi
Quando, nel 1922, ci si avviò alla formazione dell’Unione sovietica, uno Stalin quarantaquattrenne, già allora incaricato di occuparsi delle questioni etniche, assunse un ruolo determinante nei colloqui. Se fosse dipeso da lui, avrebbe schiacciato senza alcun riguardo i popoli non etnicamente russi sotto la macina della russofonia e del centralismo di Mosca. Tutti quei popoli, inclusi gli ucraini, si ribellarono e segnalarono che l’Unione sovietica, a quelle condizioni, non sarebbe mai nata. I rappresentanti ucraini definirono la pretesa di Stalin «sciovinismo russo» e l’intero Comitato centrale del Partito comunista della Georgia si dimise, in segno di protesta.
Dovette intervenire Lenin, ormai segnato dalla malattia, per salvare la causa: affermò che riconoscere le diversità etniche era indispensabile e impose alla nascente Unione sovietica un assetto federale che ne tenesse conto (Cfr. Субтельный О. – Украина, история. Київ, любіль, 1994). Sul piano pratico, come sappiamo, la multietnicità sovietica restò poco più di una proclamazione di principio, poiché il Partito comunista, al quale la Costituzione attribuiva un ruolo guida, restava una struttura fortemente russofona e russocentrica. L’equilibrio fra la componente russa e quelle non russe dell’Unione sovietica restò sempre fragile: più tardi, a Unione già costituita, Stalin stesso riconobbe: «L’Ucraina è l’anello debole del potere sovietico.»
La diversità delle etnie, però, era finalmente accettata e non fu tutto fumo senza arrosto: Mosca dovette agire concretamente, per garantirsi la lealtà dei popoli non russi. La politica della korenizacija («radicamento» o «indigenizzazione,» che in Ucraina si chiamò ukrainizacija, «ucrainizzazione») contribuì, volens aut nolens, a conservare e valorizzare le lingue e culture delle singole repubbliche sovietiche (Cfr. Jobst K.S. – Geschichte der Ukraine. Stuttgart, Reclam, 2010; anche Subtel’nyj, op. cit.). Sempre Lenin pretese che nella Costituzione sovietica del 1924, poi definitivamente approvata un mese dopo la sua morte, fosse introdotto l’articolo 4, che permetteva alle Repubbliche di uscire liberamente dall’Unione. Con ciò veniva riconosciuta a ogni Repubblica sovietica una sovranità interna che ne confermava l’autonomia soggettiva e oggettiva rispetto alle altre e al potere centrale. Ancora una volta: se fosse vero che Russia e Ucraina sono da sempre la stessa cosa, questi temi non si sarebbero neppure posti.
Le dominazioni sull’Ucraina, il parallelo con l’Italia
Vero che l’Ucraina ha subito numerose e durature dominazioni. E’ errato però desumerne che la sua identità ne sia stata indebolita o addirittura che questo passato giustificherebbe le pretese della Russia sul suo territorio. Da questo punto di vista, la storia dell’Ucraina è molto simile a quella dell’Italia: un territorio storicamente conteso e governato da potenze straniere, che ha mantenuto nei secoli, nonostante ciò, un’identità culturale e linguistica, sino a quando, appena le circostanze lo hanno permesso, ha raggiunto una propria unità e sovranità statuale.
Per l’Italia ciò è avvenuto nel 1861, per l’Ucraina una cinquantina d’anni dopo, ma il processo è analogo. Qualcuno giustificherebbe la Spagna, oggi, se questa accampasse pretese sulle ampie regioni italiane che furono per secoli sotto il suo dominio? Sarebbe spiegabile che l’Austria si ritenesse in diritto di occupare e annettere la Lombardia e il Triveneto, vantando la sua presenza storica in quei territori? Con le identità e le frontiere nazionali non si scherza: un secolo di conflitti, dalle guerre risorgimentali sino alla Seconda guerra mondiale, dovrebbe bastare a insegnarcelo.
La questione della Crimea
Un appunto a sé merita la questione della Crimea, ceduta dalla Russia all’Ucraina nel 1954 per volere di Nikita S. Chruščëv. I russi decisero di cedere la Penisola all’Ucraina perché, per ragioni geografiche evidenti, non riuscivano a svilupparla e, in particolare, a fornirvi acqua. La Crimea era fortemente arretrata e gli ucraini esitarono non poco, prima di accettare la donazione non disinteressata dei russi: lo riporta Sergej N. Chruščëv, storico di vaglia, figlio di Nikita S. Chruščëv e autore di numerosi saggi sul padre, oltre che curatore delle sue memorie.
Il problema si ripropone puntualmente oggi: per raggiungere la Crimea via terra dalla Russia, Putin ha speso miliardi per costruire un ponte avveniristico lungo ben 19 chilometri, mentre gli ospedali delle province russe cadono a pezzi per mancanza di fondi. Ancora in questi giorni, in particolare nelle settimane più canicolari dell’estate, la Crimea segnala problemi di approvvigionamento idrico, perché le fonti locali non sono sufficienti. Dalla Russia l’acqua non si riesce a portare, per assenza di continuità territoriale, mentre l’Ucraina rifiuta di fornirla, poiché ciò costituirebbe un’accettazione per fatto concludente dell’annessione russa.
Infine: se anche la Russia avesse ceduto la Crimea all’Ucraina il giorno prima di invaderla nel 2014, ciò non muterebbe nulla al fatto che l’azione di Mosca ha violato in modo evidente ogni principio del diritto internazionale e fa tornare alla mente l’invasione e annessione dei Sudeti da parte di Hitler nel 1938: Putin, per giustificare il suo intervento in Crimea, usa argomenti analoghi a quelli usati allora dal Führer. Vogliamo davvero rivedere quella storia, in Europa?
L’Unione sovietica o la Russia hanno «perso territorio?»
L’Unione sovietica si è sciolta nel 1991 e oggi le 15 repubbliche che la costituivano sono Stati indipendenti. Questo evento non si è verificato per un complotto occidentale: neppure gli storici russi più fedeli al Cremlino sono disposti ad accettare questa tesi. Un esempio per tutti è Andrej Jurevič Šarin, autore di numerosi testi sul quel periodo storico, docente della facoltà di Storia dell’Università statale di Mosca e consulente del Ministero russo dell’istruzione e della scienza, certamente non uno storico venduto all’Occidente.
Anch’egli afferma l’unica verità possibile: qualunque cosa avesse fatto l’Occidente, l’Unione sovietica cadde per motivi interni, in particolare perché entrò in crisi il suo sistema fondato sulla mobilitazione e mancò il passaggio a un sistema fondato sull’innovazione (un’utile sintesi del suo pensiero si trova in questa lunga intervista in lingua russa da lui rilasciata al canale >History Lab). E’ incauto affermare che gli Stati uniti o altri Paesi occidentali operarono per il crollo dell’Unione sovietica. Accadde, piuttosto, l’esatto contrario: l’Occidente fece di tutto per sostenere il piano di riforma dell’Unione promosso da Michail S. Gorbačëv, il cui scopo era mantenere in vita l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche.
Merita ricordare qui almeno due episodi significativi. In primo luogo, il vertice del 1989 tra George Bush padre, presidente degli Stati uniti, e lo stesso Gorbačëv, avvenuto a Malta: ciò che accadde durante quel vertice può essere studiato a fondo sui protocolli, oggi desecretati, sia quelli redatti dai sovietici sia quelli degli americani. Gli Stati uniti mossero ogni leva a loro disposizione per sostenere Gorbačëv e il suo progetto di riformare l’Unione sovietica senza spaccarla. Il secondo episodio-chiave fu il discorso tenuto nel 1991 dal presidente USA dinanzi al parlamento dell’Ucraina, in quei giorni ancora Repubblica sovietica.
Il ruolo di Gorbačëv
E’ un equivoco molto diffuso in Occidente, credere che la caduta dell’Unione sovietica sia avvenuta per volontà di Michail Gorbačëv: non fu così. L’Unione si spezzò l’8 dicembre 1991, quando Russia, Bielorussia e Ucraina decisero di formare la Comunità degli Stati indipendenti e iscrissero nel preambolo del trattato costitutivo di quest’ultima la frase seguente, rimasta celebre:
«Союз ССР, как субъект международного права и геополитическая реальность, прекращает свое существование.»
[Traduzione] – «L’Unione [delle Repubbliche socialiste sovietiche], come soggetto del diritto internazionale e realtà geopolitica, cessa la sua esistenza.»
[Trattato di costituzione della Comunità degli Stati indipendenti, 8.12.1991, Preambolo]
Con ciò, il progetto di mantenere unita l’Unione sovietica riformandola, promosso da Gorbačëv, diventò carta straccia. Lui, che vi aveva investito tutta la sua credibilità personale e politica, si dimise proprio perché prese atto che il suo intento era fallito: lo Stato di cui era presidente non esisteva più. Nel suo noto e toccante discorso televisivo di congedo, il 25 dicembre 1991, disse testualmente:
«Я твердо выступал за самостоятельность, независимость народов, за суверенитет республик. Но одновременно и за сохранение союзного государства, целостности страны. События пошли по другому пути. Возобладала линия на расчленение страны и разъединение государства, с чем я не могу согласиться. […] Я покидаю свой пост с тревогой. Но и с надеждой, с верой в вас, в вашу мудрость и силу духа. […] Желаю всем вам всего самого доброго.»
[Traduzione] – «Mi sono sempre espresso con forza a favore dell’autonomia e dell’indipendenza dei popoli, per la sovranità delle Repubbliche, ma anche per la conservazione dello Stato dell’Unione [sovietica] e per l’integrità del Paese. Le cose sono andate diversamente. Ha prevalso la linea dello smembramento del Paese e della divisione dello Stato. Con questo io non posso essere d’accordo. […] Lascio il mio posto con angoscia, ma anche con speranza, con fiducia in voi, nella vostra saggezza e forza d’animo. […] Auguro a tutti voi ogni bene.»
[Gorbačëv M.S. – Discorso di annuncio delle dimissioni dalla carica di Presidente dell’Unione sovietica, 25.12.1991]
Sostenere Gorbačëv, come fece allora l’Occidente, significava sostenere il mantenimento dell’Unione sovietica: gli atti che attestano questo dato di fatto sono innumerevoli. Assenti, invece, quelli che potrebbero provare una responsabilità occidentale nella fine dell’URSS. Anche la macchinosa teoria secondo la quale il calo improvviso del prezzo del petrolio negli anni Ottanta sarebbe stato volutamente provocato dagli Stati uniti, che avrebbero agito sull’Arabia saudita per causare una riduzione drastica di incassi dall’esportazione petrolifera dell’Unione sovietica e indurne così la crisi mortale, si perde nel complottismo e nella mancanza di prove.
Questa tesi è stata sostenuta persino dal figlio del presidente USA Ronald Reagan: quando gli è stato chiesto di indicare fatti e circostanze che proverebbero questa versione, però, non ha risposto, mentre centinaia di documenti e studi attestano l’esatto contrario, cioè che le oscillazioni del prezzo del greggio in quel periodo furono dovute a nient’altro che a dinamiche di mercato e di relazione fra Paesi produttori (si veda ad esempio, tra i numerosi studi sull’argomento, questa utile >sintesi).
Il discorso di George Bush (padre) agli ucraini
L’evento più plateale che mostrò l’interesse dell’Occidente a mantenere unita l’Unione sovietica fu la visita in Ucraina del presidente statunitense George Bush padre, il 1. Agosto 1991. Bush si rivolse agli ucraini mentre stavano preparandosi al referendum per l’indipendenza, che si si sarebbe tenuto tre settimane dopo, il 24 agosto. Gli ucraini si attendevano che Bush li incoraggiasse a seguire la via dell’indipendenza, ma rimasero profondamente delusi, poiché il presidente USA disse loro, invece, che l’Ucraina avrebbe fatto meglio a restare nell’Unione sovietica e a sostenere il progetto di riforma di Gorbačëv. A proposito di questo discorso, Bush scriverà nelle sue memorie:
«I wanted to see stable, and above all peaceful, change. I believed the key to this would be a politically strong Gorbachev and an effectively working central structure.»
[Traduzione] – «Volevo vedere un cambiamento a condizioni stabili e soprattutto pacifico. Credevo che la chiave, a questo scopo, fosse un Gorbačëv politicamente forte e una struttura centrale [dell’Unione sovietica] effettivamente funzionante»
[Cfr. Bush G., Scowcroft B. – A World Transformed. Alfred Knopf, New York, 1999]
Alla luce dei fatti e dei documenti, è ben difficile sostenere che l’Occidente abbia cercato di frantumare l’Unione sovietica, se non rifugiandosi nelle teorie cospirative. Certamente vi fu chi studiò quali scenari si sarebbero aperti, in caso di caduta dell’URSS, e tra questi non vi fu solo Zbigniew Brzezinski. La densa letteratura sulle possibili conseguenze di uno scioglimento dell’Unione sovietica rimonta agli anni Cinquanta. È normale poi, e vi sarebbe da meravigliarsi del contrario, che negli anni dopo l’ascesa di Gorbačëv gli Stati uniti elaborassero ipotesi sugli eventi successivi a un’eventuale fine dell’URSS.
Tra le principali preoccupazioni che inducevano a operare affinché le quindici repubbliche socialiste restassero unite vi era il timore per la sorte dell’immenso arsenale nucleare sovietico: cosa ne sarebbe stato? Era chiaro che il gigante di Mosca aveva i piedi di argilla. Negli ultimi anni il Cremlino non riusciva nemmeno a pagare le bollette telefoniche delle ambasciate all’estero e i biglietti aerei dei diplomatici, perché aveva esaurito le riserve di valuta (Cfr. Dalos G. – Lebt wohl, Genossen! Der Untergang des sowjetischen Imperiums. Bundeszentrale für politische Bildung, Bonn, 2011).
Chi avesse ancora dei dubbi, li sciolga leggendo lo stupendo saggio di Roj Medvedev, non disponibile in italiano, «Gli ultimi anni di vita dell’Unione sovietica» (Рой Медведев – Советский Союз, последние годы жизни. Астрель, Москва, 2010) oppure le memorie dei dirigenti sovietici che vissero quella fase, da Karen N. Brutenc e Statislav S. Šuskevič sino al documentatissimo «La morte dell’impero – Lezioni per la Russia contemporanea» di Egor T. Gajdar, che da quadro del Partito comunista sovietico divenne capo del governo della Russia di El’cin, dopo la caduta dell’URSS (Гайдар Е.Т. – Гибель империи : уроки для современной России. Российская политическая энциклопедия, Москва, 2006). A questi si possono aggiungere le memorie di V. Vrublevskij, uno dei più stretti collaboratori di Vladimir V. Ščerbickij, che rappresenta la vicenda dalle stanze del governo ucraino (Врублевский В. – Владимир Щербицкий: права и вымыслы. Довіра, Київ, 1993).
Non deve meravigliarci che in quel frangente, negli ambienti politici e accademici occidentali, si facessero studi su cosa sarebbe potuto accadere, nel momento in cui le repubbliche sovietiche, con i loro arsenali atomici, le loro miserie e il loro personale politico inesperto, si fossero trovate a navigare da sole. Le cancellerie del mondo dovevano forse stare a guardare, attendendo un finale a sorpresa? La politica internazionale non è un gioco a mosca cieca.
La Storia è complessa: i casi Bielorussia e Naval’nyj
E’ vero che la Storia è molto complessa e va guardata da tutti i punti di vista: il guaio è che la Storia, se davvero la si guarda da ogni prospettiva, non solo da quella sovietica, ci riporta alla situazione di oggi, che ripete lo schema di sempre: Ucraina, Bielorussia, Stati baltici e finanche Polonia che cercano in tutti i modi di contenere l’espansionismo russo; Mosca, dall’altra parte, che tenta in ogni modo di convincere il mondo che tutto ciò che c’è a ovest della sua attuale frontiera sarebbe roba sua, con totale disprezzo del fatto che in quei territori esistono popoli, lingue e culture che non hanno alcuna intenzione di essere o diventare russi. Dobbiamo attendere che questa pretesa si estenda fino all’Europa occidentale?
La Quarta teoria politica e il progetto Eurasia di Aleksandr Dugin, insieme alla dottrina della guerra ibrida del generale Gerasimov, di cui ho parlato nella mia relazione alla Camera, costituiscono la base intellettuale e operativa per realizzare questa espansione. Non resta che lasciarli fare, se è ciò che vogliamo. È vero che Aleksandr Dugin non rappresenta l’intera Russia: è altrettanto vero, però, che le teorie di Dugin trovano il sostegno del Cremlino e vengono puntualmente realizzate, ormai da anni, senza significativa opposizione occidentale.
In tutto ciò, un possibile rappresentante di una Russia diversa, Aleksej A. Naval’nyj, in questi giorni giace ricoverato in Germania in gravi condizioni, avvelenato nel suo Paese con un’arma chimica durante una campagna elettorale. La lista di attivisti e rappresentanti di una società civile russa «diversa» finiti sotto processo, in galera o al cimitero è lunghissima, oltre i nomi più noti.
Nella vicina Bielorussia, in rivolta da settimane, Mosca continua a sostenere e a finanziare generosamente un autocrate inguardabile, mentre il Ministro degli esteri russo definisce «artificiale» la lingua bielorussa e «nazionalisti» i politici bielorussi che la parlano, poiché il Cremlino considera normale che in tutto lo spazio ex-sovietico si debba parlare russo, secondo il vecchio motto di Stalin. Cosa dobbiamo ancora attendere, per capire ciò che sta succedendo intorno a noi?
In conclusione, nel 1991 l’Unione sovietica non ha «perso territorio:» si è disciolta perché giunta al collasso economico, sociale e morale. La Russia non ha perso un metroquadro di estensione: è rimasta quella che era come Repubblica socialista federativa russa, membro dell’Unione sovietica. Con la caduta dell’URSS e del Patto di Varsavia il Cremlino ha perso, piuttosto, un’ampia zona d’influenza: Mosca, infatti, considerava le altre 14 repubbliche sovietiche e gli Stati dell’Europa orientale come casa propria, oggi non può più farlo. Putin intende ricostruire quella zona di controllo, e, come ho spiegato nella mia relazione, punta a estenderla all’Europa intera. Sta a noi decidere se permetterglielo oppure no.
Vero che l’Occidente ha commesso un grave errore, acconsentendo all’estensione della NATO verso est: non tanto perché ciò fosse sgradito a Mosca, ma soprattutto perché la caduta della sua controparte, il Patto di Varsavia, privava di senso l’Alleanza atlantica. In quel momento sarebbe servito uno sforzo di intelligenza per disegnare nuovi equilibri geopolitici e militari adeguati al mondo che stava nascendo. Eravamo ormai nei primi anni Novanta, però, l’epoca dei politici intelligenti e lungimiranti era al tramonto.
Perché in Italia manca consapevolezza
Com’è possibile che in Italia, ai massimi vertici della politica, ma anche nel giornalismo e nelle accademie, con poche ma inutili eccezioni, persista una conoscenza così parziale della storia e del presente dell’Est Europa?
Le spiegazioni sono tante, qui ne cito una sola, che riguarda la consapevolezza storica. La storiografia italiana, quando tratta la Russia, l’Unione sovietica e gli altri Paesi europei orientali, non riesce a guardare schiettamente ai fatti: generazioni di studenti hanno appreso quella parte di storia e di mondo attraverso le lenti deformanti del mito sovietico e dell’ideologia comunista, e così si continua. Le facoltà universitarie e la pubblicistica italiane soffrono della stessa miopia: ai loro occhi, la Russia coincide con l’ex Unione sovietica. La caduta di quest’ultima, perciò, non è stata la fine di una federazione fra quindici Stati, ma una riduzione ingiusta e involontaria del territorio russo.
Per lo stesso motivo, le lingue e le culture di Ucraina, Bielorussia e degli altri Stati ex sovietici, per la quasi totalità dell’élite culturale italiana non sono altro che varianti pittoresche dell’essere russi, perciò è giusto che Mosca pretenda di dominare quei territori. Le cose, in realtà, stanno diversamente, ma gli italiani, ogni volta che glielo si ricorda, cadono dal pero. Date le premesse, non c’è da stupirsene. Non è azzardato affermare che è molto difficile comprendere le vicende di quelle regioni d’Europa se le si studia in italiano. La storiografia in inglese, a sua volta, spesso è superficiale e sbilanciata a favore della visione statunitense: aiuta, ma non sempre.
Molte tra le più belle pagine scritte sull’Est Europa appartengono alla storiografia e alla documentaristica tedesca. La storia e la geografia hanno obbligato i tedeschi a conoscere a fondo i loro vicini orientali. Soprattutto a proposito dell’ultimo periodo dell’Unione sovietica, però, per sapere come andarono le cose bisogna aggrapparsi alle memorie dei politici che governarono dall’interno quella stagione e alle testimonianze di chi la visse da comune cittadino, in un arco di tempo compreso dagli anni Settanta, con la Ostpolitik di Willy Brandt, sino all’oggi.
Per trovarle bisogna farsi venire i calli ai piedi nelle librerie e nei mercatini dei libri usati di Kiev, Odessa, Mosca, Bucarest, Timișoara e delle altre città dell’Est; bisogna scovare in Internet le interviste con personaggi spesso sconosciuti in Occidente anche ai più informati, ma che furono figure chiave della Perestrojka, della riunificazione tedesca e della caduta dell’Unione sovietica. Possono essere libri lisi, filmati nebbiosi dall’audio incerto, materiali talvolta pesantissimi da digerire che non si trovano tradotti in inglese, se non in minima parte, e certamente non italiano. Dopo averli scovati e ripuliti dalla polvere dei magazzini, bisogna studiarli in russo, ucraino, romeno, polacco, tedesco; vanno depurati dalle contraddizioni, verificati, approfonditi.
Senza questa fatica, è impossibile avere le idee chiare sui nostri vicini dell’Est. Purtroppo, ai livelli più alti, la scarsa consapevolezza sulle vicende di quella parte di mondo e di Storia si trasforma in decisioni politiche errate e nella sottovalutazione delle minacce che le nuove ideologie escogitate e realizzate in Russia rappresentano per lo Stato di diritto europeo e per il nostro stile di vita.
Carlo Pinton ha detto:
Altra perla che conserverò gelosamente. Grazie mille!
Luca Lovisolo ha detto:
Grazie.
Roberta ha detto:
Buonasera, vorrei segnalare che fino a Pietro I i sovrani russi nei documenti ufficiali usavano il titolo di zar, non di imperatore: il primo ad assumere questo titolo fu Pietro I (nell’ambito della sua politica di «occidentalizzazione»), quindi sarebbe più corretto chiamare Aleksej Michajlovic zar, mentre per Pietro I e per tutti i sovrani che lo seguirono si possono usare entrambi i titoli.
Luca Lovisolo ha detto:
Grazie per le Sue osservazioni. Ho preferito utilizzare il termine «imperatore» in entrambi i casi per riferirmi al sovrano russo, pur consapevole che nel caso di Aleksej non è strettamente corretto sul piano formale. In effetti, però, poiché il termine «zar» è valido per entrambi ed è comunque noto al lettore italiano, è preferibile e l’ho sostituito. Considerazioni analoghe si potrebbero fare per il toponimo «Ucraina,» che a quel tempo era sì corrente ormai da secoli nella cartografia, ma, per maggiore precisione, politicamente si trattava dello Stato-esercito o Sič di Zaporižžja. Anche il termine «Russia» nel senso moderno compare successivamente, in alcuni punti dell’articolo sarebbe più proprio parlare di «Moscovia.» In questa sede, però, mi è parso meglio rinunciare a qualche pur giusto puntiglio formale, allo scopo di rendere il testo immediatamente percettibile per un lettore che non frequenta regolarmente la storia e la geografia di quelle regioni. Per le finalità di questo articolo, la sostanza non cambia. Cordiali saluti. LL
Donatella Chiostri ha detto:
Grazie, come sempre una voce preziosa.
Luca Lovisolo ha detto:
Grazie per il Suo apprezzamento.
Federico Cupellini ha detto:
Mi permetto di segnalare che l’insegnamento non è come descritto in tutte le università. Per esempio, alla Statale di Milano il corso della professoressa Lami tratta in modo estensivo della «questione Ucraina.»
Luca Lovisolo ha detto:
Sono certo che singole accademie affrontino questi aspetti più correttamente, anche in Italia. Resta il fatto che storiografia, accademia e pubblicistica italiane si rivelano in generale molto inadeguate ad affrontare questi eventi, per le ragioni che ho spiegato.