Linguaggio giuridico e traduzione si incrociano in modo originale. Tutti percepiamo che nelle leggi e nelle sentenze dei giudici le parole assumono significati diversi, rispetto al linguaggio di tutti i giorni. Questa particolarità condiziona le scelte di chi traduce testi legali. E´ anche uno degli aspetti che distinguono la traduzione umana da quella affidata all’intelligenza artificiale.
L’attenzione che i giuristi pongono al linguaggio li espone spesso all’ilarità di chi li addita come azzeccagarbugli. Non si tratta solo dell’inascoltabile legalese che echeggia nelle aule giudiziarie e nei provvedimenti legislativi, un linguaggio poco più alto dell’ancor più odioso burocratese. La relazione fra linguaggio e diritto è strettissima ed è stata approfondita da molti studiosi. Di particolare interesse le opere di Gaetano Calcaterra, per citarne uno tra i più recenti e di area italofona. Se ne sono occupati autori di ogni tempo, da Kant ai maggiori filosofi del diritto del Novecento.
Nella traduzione del linguaggio giuridico si guarda oltre la «terminologia.» Tuttavia, chi traduce non deve cadere nell’eccesso di iper-intellettualizzare la traduzione: nonostante la loro tecnicità, i testi legali hanno finalità essenzialmente pratiche. La traduzione deve rendere possibile un negozio giuridico tra parti che parlano lingue diverse, non essere corretta in astratto. La sfida risiede nel trovare il giusto equilibrio tra correttezza formale, trasmissione del contenuto sostanziale e fruibilità.
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Nella pratica, una delle capacità essenziali per chi traduce testi giuridici è riconoscere le fattispecie. Per fattispecie s’intende una situazione prevista nel dettato di una norma e dalla quale discendono effetti giuridici. La norma è costitutiva dell’ordinamento giuridico, e la norma è linguaggio.
Linguaggio giuridico e traduzione: un esempio pratico
Prendiamo ad esempio una fattispecie che nell’attività di traduzione si incontra molto spesso, la conclusione di un contratto. Nel Codice delle obbligazioni svizzero e nel Codice civile italiano è formulata così:
«Il contratto non è perfetto se non quando i contraenti abbiano manifestato concordemente la loro reciproca volontà. […]» (Art. 1 CO CH)
«Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte. […]» (Art. 1326 CC IT)
A fornire il lessico da utilizzare è la norma che regola la fattispecie. Chi traduce ha sempre a che fare con almeno due ordinamenti, quello della lingua d’origine e quello della lingua di destinazione. Il punto di partenza per la traduzione, perciò, è l’analisi del testo dal punto di vista giuridico.
Dopo aver identificato l’istituto giuridico, che può essere relativamente semplice da riconoscere, l’analisi dovrà individuare la fattispecie e la norma che la regola nei due ordinamenti. L’esempio citato è una fattispecie piuttosto comune e materialmente analoga tra i due Paesi: l’atto di nascita di un contratto. Essa, però, è formulata in due modi diversi nei due codici.
Nel tradurre si devono considerare anche le interazioni con altri sistemi linguistici. La traduzione non può ignorare del tutto il senso acquisito da alcuni termini del linguaggio giuridico nel linguaggio comune, le relazioni con altri ambiti specialistici e la comprensibilità per chi legge. Siamo certi che conclusione del contratto significhi per tutti il momento del sorgere della relazione contrattuale, e non quello della sua fine? Un lettore non tecnico non rischierebbe di confondere il perfezionamento con la fine dell’esecuzione di un contratto?
Le finte analogie: quando l’apparenza inganna
Il discorso si complica quando due ordinamenti regolano le fattispecie in modo diverso, magari usando un falso amico o un titolo analogo. Si pensi al reato di calunnia, previsto dall’articolo >368 del Codice penale italiano come delitto contro l’amministrazione della giustizia.
Un reato con lo stesso titolo è presente anche nell’ordinamento svizzero, all’articolo >174 del Codice penale. L’apparenza inganna: nonostante l’identità del nome, i due reati presentano differenti visioni del bene giuridico tutelato e fatti tipici diversi. Cambiano anche la qualificazione del soggetto passivo e le circostanze aggravanti e attenuanti specifiche. Più sopra, con la conclusione del contratto, avevamo un’identica fattispecie regolata con due linguaggi differenti. In questo secondo caso, invece, due fattispecie portano lo stesso nome ma hanno contenuti diversi.
Una situazione molto frequente nella traduzione del linguaggio giuridico, che richiede ancor più cura, sorge quando una fattispecie esistente nell’ordinamento della lingua d’origine non esiste nell’ordinamento di destinazione. Da dove trarre ispirazione, in questi casi?
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Linguaggio giuridico e traduzione: conclusioni
Saper tradurre significa saper mediare. E’ l’analisi del testo, che fa la differenza. Una differenza che non sfugge a un lettore attento. E’ facile distinguere una traduzione svolta da chi sa leggere i testi con occhio giuridico, collocandoli nell’ordinamento dei Paesi interessati, da un’altra eseguita senza un costante confronto con le fonti del diritto, anche se appare accurata dal punto di vista linguistico.
Questa osservazione vale a maggior ragione oggi, dinanzi al progresso della traduzione automatica. La mediazione tra fonti e ordinamenti è una delle abilità che contraddistinguono chi svolge traduzioni secondo criteri professionali; la sua mancanza è evidente nelle traduzioni affidate a un’intelligenza artificiale.
L’elemento qualificante della traduzione di testi giuridici è la relazione tra linguaggio e fonti del diritto. La norma di legge, nelle sue diverse forme, costitutive o prescrittive, è pietra angolare dell’ordinamento e, contemporaneamente, fonte e custode del linguaggio.
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(Articolo pubblicato in originale il 14.9.2016, ripubblicato con aggiornamenti il 15.4.2024)
Fausto ha detto:
Salve Luca,
personalmente io trovo ancora difficoltà a capire se un agreement è lo stesso istituto giuridico del «contratto» italiano. Mi è capitato di trovare nello stesso testo contract e agreement, stentando a comprendere se fossero usati come sinonimi oppure no. Quanto al punto di vista del lettore non tecnico, penso che la traduzione debba essere corretta comunque (e che quindi bisogna usare «concluso» se questo è il termine giusto giuridicamente), per non introdurre errori che possano essere additati dal committente. Cordiali saluti e ottimo articolo.
Luca Lovisolo ha detto:
Buongiorno Fausto,
Ottimo esempio. Piuttosto che guardare al titolo del documento, è bene cercare di capirne la natura. Ci sono degli agreement dietro ai quali c’è un contratto, ma altri no. Penso in particolare al diffusissimo «Non Disclosure Agreement» che solitamente non è un normativo a sé, ma un regolamento accessorio a un contratto, emesso in un documento separato oppure come parte del documento principale (esempio: il contratto fra traduttore e agenzia regola le modalità di esecuzione della traduzione; il NDA regola la riservatezza e protezione dei dati). In questo caso, in italiano, si preferisce il termine «patto accessorio.» Pur non avendo un preciso significato giuridico, infatti, il termine «patto» è invalso per designare un accordo accessorio a un negozio principale. Se mi sarà possibile dedicherò all’esempio da Lei proposto un prossimo articolo, perché è un caso molto comune. Quanto alla comprensibilità della traduzione per il lettore non tecnico, sono ampiamente, ma non del tutto, d’accordo con Lei. Non del tutto, perché vi sono situazioni nelle quali non si può non tenere conto delle capacità di ricezione del lettore. Pensi a un contratto rivolto al grande pubblico: può essere necessario, anche se non facile, trovare una mediazione, soprattutto laddove il lettore potrebbe facilmente dire che quel documento è formulato in modo incomprensibile per lui o per un lettore medio e, su questa base, sollevare eccezioni. La precisione tecnico-giuridica, in questo caso, anziché riparare da possibili contestazioni, può diventare un boomerang. Non è una situazione facile, comunque. Cordiali saluti. LL