Le vicende dei fattorini che consegnano vivande e, in generale, i rapporti di lavoro nelle imprese della cosiddetta «economia della condivisione:» le similitudini con il settore della traduzione sono molte. Sentenze recenti richiamano l’attenzione del pubblico su queste situazioni. Le analogie toccano in particolare i traduttori che lavorano nelle fasce più basse di mercato.
Una delle vicende più note in questa materia in Italia è il caso dei fattorini che consegnano vivande, in bicicletta o motorino, passato alle cronache come «caso Foodora.» Vi sono anche altri procedimenti giudiziari analoghi, che hanno coinvolto diverse aziende in altri Paesi. I casi hanno un tratto comune: riguardano imprese della cosiddetta economia della condivisione o, per gli anglofili, sharing economy e talvolta gig economy (lett. economia dei lavoretti). Le due espressioni non sono del tutto coincidenti, ma indicano un complesso di opportunità e di problemi analoghi. Una sentenza pronunciata nelle settimane scorse nel Regno unito, sempre in merito all’attività di fattorino, ha riportato il tema all’attualità.
Nel gennaio 2019, la Corte d’appello di Torino ha riconosciuto l’esistenza dei presupposti del lavoro dipendente nell’attività svolta dai fattorini Foodora. Alla stessa conclusione è giunto nel febbraio 2020, in un caso simile, un tribunale inglese. E’ indicativo il fatto che le due sentenze siano pervenute allo stesso giudizio, pur in due Paesi che hanno sensibilità profondamente diverse in materia di diritto del lavoro. Le segnalazioni di pronunce analoghe si stanno moltiplicando.
Si va costituendo un orientamento giurisprudenziale volto a riconoscere in questa tipologia di impieghi gli elementi del lavoro subordinato o parasubordinato. Ciò non toglie che i rapporti di lavoro dell’economia della condivisione lascino aperti molti interrogativi ai quali non è sempre possibile dare risposta applicando le categorie consolidate del diritto del lavoro, in particolare per la distinzione fra lavoratore autonomo (o libero professionista) e lavoratore subordinato (o dipendente).
Le similitudini fra questi casi e il settore della traduzione sono molte e illuminanti. E’ necessaria una premessa sul significato del termine traduttore, oggi ambivalente. Il mercato della traduzione è ormai articolato in due segmenti molto distinti. Da una parte, un segmento più elevato ed esigente, nel quale i traduttori percepiscono compensi analoghi a quelli di altri professionisti. Questo segmento è generalmente inaccessibile e persino ignoto ai traduttori con i retroterra più omologati e che non abbiano altre competenze che quella linguistico-traduttiva.
Dall’altra parte, vi è il segmento a valori più bassi, più vicino alle prestazioni di servizio che alle professioni: ruota generalmente intorno alle lingue più inflazionate e a testi meno impegnativi, è contraddistinto da una minore profilazione degli operatori e da fatturati sempre meno adeguati alle attese di un laureato. L’uso del termine traduttore in questo articolo è riferito ai portatori di quest’ultimo profilo. La premessa è necessaria, poiché il termine si applica a entrambe le categorie, sebbene si tratti ormai di due attività profondamente diverse per requisiti formativi, responsabilità, riconoscimento economico e sociale.
L’esempio di partenza: il «caso Foodora»
Le rivendicazioni dei fattorini poggiavano in sintesi su questi rilievi. Tutte le cause seguite a questo caso e concernenti altre imprese presentavano gli stessi elementi determinanti:
- Compensi bassissimi, che non permettono di conseguire un utile adeguato al mantenimento di un lavoratore autonomo: i fattorini, in aggiunta, lavorano con mezzi propri, subendone i costi di consumo, usura e manutenzione.
- Eccessiva flessibilità e variabilità del lavoro, che rende difficile o impossibile pianificare un utile mensile, soprattutto considerando i bassi compensi.
- Stretta dipendenza dalle piattaforme automatiche per la distribuzione del lavoro e la valutazione delle prestazioni svolte. Le piattaforme assegnano gli incarichi in base ad algoritmi, i singoli fattorini sono sottoposti a continua pressione psicologica per aggiudicarsi gli incarichi disponibili.
Queste caratteristiche si ritrovano, mutatis mutandis, nell’attività di molti traduttori, particolarmente quelli che lavorano per le agenzie più standardizzate. Alle agenzie si è aggiunta, negli ultimi anni, una pletora di portali Internet che raccolgono nominativi di professionisti dei settori più diversi, anche di quello linguistico, e agiscono come mere piattaforme di contatto fra domanda e offerta (si veda questo >articolo). Se vi sono agenzie che mantengono un buon profilo qualitativo, altre offrono servizi massificati e si avvicinano sempre più al modello di business dei portali.
Soprattutto per i traduttori che iniziano oggi e per talune lingue, come l’italiano, in molti casi il valore di mercato della traduzione non permette più al traduttore di fatturare a sufficienza per vivere e sostenere i costi di un’attività autonoma (acquisto e aggiornamento dell’infrastruttura informatica, costi di marketing, formazione continua etc.). Inoltre, i flussi di lavoro sono irregolari: in certa misura, ciò è comune a tutte le professioni, ma il traduttore non guadagna a sufficienza, oggi, per compensare i periodi di minor lavoro.
E’ sempre più frequente, soprattutto presso le agenzie maggiori, che gli incarichi di traduzione vengano distribuiti non più telefonando o scrivendo al singolo traduttore, ma installando il materiale su piattaforme Internet. Il primo traduttore che accede alla piattaforma scarica il lavoro e lo svolge, essendo pressoché indifferente se l’incarico venga eseguito dall’uno o dall’altro, in questa fascia di mercato.
Ciò causa nel traduttore un continuo stress nel verificare gli incarichi che vengono caricati sulla piattaforma e limita la sua libertà di gestione del tempo. Anche nei momenti in cui non riceve lavori, di fatto non può dedicarsi appieno ad altre eventuali attività. Deve costantemente rispondere alle notifiche della piattaforma, per accorgersi magari che l’incarico non corrisponde al suo profilo o è già stato accettato da altri. Se non segue la piattaforma o rifiuta un certo numero di incarichi successivi, il traduttore teme di perdere la possibilità di essere ricontattato in futuro.
Professione o «lavoretto?»
Si tratta ora di dirimere un’altra controversia: se l’attività del traduttore sia o no classificabile come appartenente all’economia della condivisione, o economia dei lavoretti. Si può prevedere che ai traduttori non piacerà, ma, nella fascia di mercato più bassa, purtroppo, oggi la risposta è affermativa. E’ una conseguenza dell’evoluzione tecnologica e della crescente divaricazione del mercatodella quale ho detto più sopra. La spiegazione è in questi tre aspetti fondamentali:
– Come i taxisti di Uber, i fattorini di Foodora o i proprietari che affittano stanze con AirB&B, i traduttori della fascia più bassa lavorano su un mercato in cui la persona che presta l’opera è sostanzialmente indifferente e facilmente sostituibile, perché non contraddistinta da elevati profili di specializzazione. A ciò hanno contribuito non poco il livellamento dei percorsi di formazione dei traduttori e l’introduzione degli strumenti di traduzione assistita. Questi ultimi, in particolare, aiutano a rendere ininfluenti le conoscenze del singolo, distribuendo fra i colleghi glossari e memorie di traduzione. Trasformano così in patrimonio comune, senza alcuna compensazione, ciò che un tempo costituiva un valore aggiunto del singolo.
– Gli incarichi sono spesso incostanti, non raggiungono la regolarità necessaria per adempiere il presupposto di una professione fissato dal Codice civile, cioè quella «non occasionalità» della prestazione che trasforma un’attività saltuaria in un’impresa o professione.
– Come gli altri partecipanti all’economia dei lavoretti, anche i traduttori non conseguono utili ragionevolmente pianificabili e adeguati. Le molte statistiche disponibili confermano che nell’economia della condivisione realizza guadagni regolari non chi presta concretamente l’opera lavorativa, ma l’intermediario che la organizza: le piattaforme Uber, Foodora, AirB&B o, nel caso dei traduttori, le agenzie.
Un dipendente che siede nell’ufficio di Uber o nella sede di un’agenzia di traduzione guadagna uno stipendio adeguato e regolare; il taxista o il traduttore che svolgono la concreta attività oggetto dell’impresa non riescono a realizzare un utile che assommi a uno stipendio, particolarmente se commisurato alle aspettative di un laureato. E’ vero che il traduttore può lavorare teoricamente per infinite agenzie, ma il numero di clienti che può acquisire si scontra con la possibilità concreta di gestirli.
Oltre agli intermediari, chi guadagna, dall’economia dei lavoretti, è l’utente finale, che ottiene servizi a prezzi bassissimi, spesso irrealistici. Corse in taxi a prezzi stracciati, consegna di cibo a domicilio a costo bagatellare… traduzioni a tariffe da prefisso telefonico. Il cliente è corresponsabile di questa involuzione: accetta, pagando così poco, il rischio di ricevere una prestazione di scarsa qualità o persino pericolosa per la sua incolumità, come nel caso dei taxisti improvvisati, dei quali nessuno verifica a fondo i presupposti tecnici e psicoattitudinali per trasportare estranei sulla propria automobile privata.
E’ sbagliato, che ci sia chi guadagna qualche soldo trasformandosi in taxista occasionale, consegnando cibi a domicilio, affittando stanze vuote di casa propria, oppure facendo ogni tanto qualche traduzione non impegnativa? No, certamente, purché ciò avvenga rispettando i requisiti di legge. E’ illecito, che agenzie e intermediari lucrino su queste attività? Nemmeno questo. Lavori simili, però, un tempo erano attività accessorie, svolte da studenti in cerca di piccoli guadagni o da casalinghe che «arrotondavano» un’entrata principale.
L’anomalia, oggi, è che per molti questi lavoretti sono diventati attività e introito principale, e sfiorano persino la sfera delle professioni. Proprio le piattaforme Internet, quando convincono gli aderenti a trasformarsi in taxisti dilettanti, fattorini o traduttori, giocano su questo equivoco: attraggono aderenti presentando loro i vantaggi di una vera attività lavorativa, autogestita in piena libertà di orario, da casa propria. In realtà, sembra difficile che chi abbraccia questi lavori possa conseguire un utile proporzionato alla promessa.
Lo stesso può dirsi del settore della traduzione, che usa sempre più spesso, nella fascia più bassa di mercato, i modelli di organizzazione della gig economy. Nessuna di queste attività, nella normalità dei casi, garantirà altro se non un’entrata minima e variabile, a tal punto da non potersi considerare una piena occupazione autonoma. Non avrà neppure i requisiti univoci del lavoro subordinato, però. Le cause di Torino sul «caso Foodora» e quelle radicate in altri Paesi su casi analoghi nascono da questa indeterminatezza.
Scenari possibili
Nelle fasce più basse di mercato, fra traduttore e agenzia nasce una subordinazione di fatto, sebbene questa non possa essere sussunta alle categorie tradizionali della dottrina giuslavoristica. Non vi è vincolo di orario e subordinazione alle direttive di un datore di lavoro, ma se il traduttore deve restare attaccato al computer o al cellulare per verificare costantemente l’eventuale arrivo di incarichi; se è di fatto costretto ad accettare tutti i lavori, o quasi, alle condizioni e ai tempi dettati dall’agenzia, è difficile parlare di una vera autodeterminazione di orari e modalità di lavoro.
In particolare, le agenzie che installano gli incarichi su piattaforme automatiche delegano al traduttore una parte del lavoro di gestione che dovrebbe essere svolta dai loro impiegati. Il costo così risparmiato si converte in maggior utile per l’agenzia e in un vantaggio di minor prezzo per il cliente finale, ma non accresce l’utile del traduttore, al contrario ne aumenta lo stress e le attività tecniche da compiere.
Non sarebbe insensato che le agenzie più attente versassero ai traduttori che inseriscono nel proprio portafoglio, in queste fasce di mercato, un compenso fisso di base che riconosca la disponibilità del traduttore a seguire costantemente l’installazione di incarichi sulla piattaforma, scaricare e valutare i singoli materiali. A ciò, poi, si aggiungeranno i fatturati per la traduzione vera e propria, in caso di accettazione di un incarico.
Oggi il traduttore si annuncia alle agenzie e fa salti di gioia se gli viene solennemente comunicato di «essere stato inserito nella banca dati di collaboratori.» Tutto finisce lì, però. Pur senza arrivare a un rapporto di lavoro subordinato, «inserire il traduttore nella banca dati» dovrebbe rappresentare un investimento, per l’agenzia. Starà alla capacità organizzativa di quest’ultima, valorizzare al meglio le persone su cui investe.
Per quanto riguarda l’infrastruttura informatica, il vantaggio realizzato con l’utilizzo di software di traduzione assistita ricade oggi in gran parte sull’agenzia e sul cliente finale. Il costo di questi strumenti, sempre più elevato, resta però totalmente a carico del traduttore, con il bizzarro esito che il traduttore investe su propri strumenti di lavoro, ma i frutti di tale investimento vanno a beneficio prevalente dell’intermediario e del cliente finale.
Non risulta, infatti, che l’arrivo dei software di traduzione abbia causato un aumento significativo dei fatturati dei traduttori. Piuttosto, ha ridotto sensibilmente i costi per i clienti finali. Un equilibrato rapporto fra agenzia e traduttore, nelle fasce di mercato a minor valore, dovrebbe prevedere un contributo per le licenze e per la manutenzione della sua infrastruttura informatica.
Spesso, all’origine di questi mali vi sono i traduttori stessi. Soprattutto i più giovani andrebbero resi attenti che svolgere traduzioni a pochi cent a parola, sperando di sviluppare su questa base una vera professione, rischia di restare un’illusione. Mentre occupa le sue giornate facendo traduzioni non redditizie, il traduttore normalmente non ha tempo e risorse per affinare le proprie competenze e ricercare opportunità migliori. Si ritrova prigioniero di utili mensili a due zeri dopo imposte, che lo costringono a ritmi di lavoro insopportabili e gli tolgono ogni possibilità di sviluppo. Non tutti ne sono consapevoli.
Cosa e come cambiare?
La strada non è l’intervento legislativo e nemmeno l’improbabile costituzione di ordini professionali o altre forme di difesa corporativa, poiché questi non intervengono sui fondamentali del problema. Le dinamiche di mercato devono essere sfruttate e orientate in senso virtuoso, non alterate da privilegi o paletti legislativi. Inoltre, i traduttori lavorano frequentemente con agenzie di molti Paesi. Per questo motivo, provvedimenti normativi e altre difese nazionali sono quanto di più inadatto alla loro situazione.
Potrebbe essere una buona missione delle associazioni di categoria, che più facilmente riescono ad allearsi sul piano transnazionale, studiare nuovi modelli di cooperazione con le agenzie nelle fasce di mercato più basse e sensibilizzare gli operatori sull’inadeguatezza della situazione attuale, che in alcune realtà, già oggi, non è più sostenibile.
Molto lavoro andrebbe fatto anche sul piano della formazione. Soprattutto per chi si laurea oggi, pare che i percorsi di studio più omologati ormai non bastino più, da soli, ad aprire la strada verso i segmenti di mercato più attraenti, nei quali si può praticare un’autentica libera professione. Conosciamo, però, le violente resistenze corporative che si registrano nell’ambiente accademico, ogni volta che si tocca il tema dei contenuti della formazione.
E’ possibile che evolvere richieda anche un ripensamento dell’attuale modello di business su cui poggia la filiera del settore. Le agenzie potrebbero riposizionarsi secondo criteri di maggiore specializzazione linguistica o settoriale, che consenta loro di organizzare meglio il lavoro dei traduttori e offrire loro più sicurezza. Non si vede una logica, dietro il modus operandi di talune agenzie che raccolgono nelle loro banche dati centinaia, a volte migliaia di nominativi di traduttori dai profili diversissimi, ma concretamente non offrono una prospettiva di stabilità a nessuno di questi, comportandosi come tante Uber e Foodora.
E’ interesse comune che tutti i traduttori, anche quelli che trattano incarichi meno esigenti, vedano nella traduzione una concreta opportunità di lavoro, non un lavoretto. Se nelle fasce di mercato a maggior valore il traduttore sviluppa la professione secondo dinamiche proprie e ragionevolmente sicure, anche nei segmenti meno specialistici deve essere in condizioni di realizzare un utile sufficiente per sostenere se stesso e la sua attività.
Una richiesta di traduzioni poco specializzate e a costo più basso di quelle più specialistiche continuerà a esistere, nonostante il progresso dei sistemi di traduzione automatica. Infine, ci si può chiedere quale futuro abbia un settore economico che non garantisce agli operatori effettivi, cioè ai traduttori, il conseguimento di utili adeguati e stabilità di introiti.
(articolo pubblicato in originale il 27.7.2018, ripubblicato con aggiornamenti il 2.3.2021)
[...] ha detto:
[Questo commento è stato lasciato da un lettore che ha rilanciato questo articolo su una piattaforma di socializzazione. Viene riportato qui perché stimola alcune interessanti precisazioni.]
Pur non condividendo la teoria della divisione del mercato in due segmenti netti, credo che l’articolo ritragga una situazione reale. Ma la soluzione proposta, ovvero convincere (non si sa come) le agenzie a riconoscere i propri collaboratori come subordinati mi sembra una resa allo status quo, un modo per sancire la divisione del mercato in due segmenti. Non è più proficuo per la categoria far sapere a tutti che uscire da una situazione di precarietà e subordinazione è possibile? Ci sarà sempre chi ci accusa di dire il falso perché non è riuscito a migliorare la propria condizione lavorativa (per incapacità, perché ha privilegiato interessi famigliari, per svariati motivi che non spetta a me giudicare). Non tutti riescono ad accedere alle fasce più alte del mercato, ma tutti hanno il diritto di sapere che quelle fasce sono accessibili anche se non si è iperspecializzati, anche se «si inizia oggi e si traduce da taluni lingue come l’italiano.» Altrimenti si finisce per fare il gioco di certe agenzie e portali online.
Luca Lovisolo ha detto:
Tra i due segmenti esiste certamente una zona intermedia, popolata da traduttori che non raggiungono la fascia più alta, ma fatturano importi e hanno una regolarità di lavoro grazie a cui conseguono già utili sufficienti. Si trovano perciò a metà fra il «lavoretto» e il segmento più elevato. Scopo di questo articolo non è addentrarsi a descrivere il confine tra gli uni e gli altri, ma trattare alcuni problemi specifici della fascia più bassa. Se, qui, si fa riferimento, semplificando, alla divaricazione del mercato, lo si fa unicamente allo scopo di chiarire in quale accezione viene utilizzato il termine «traduttore» in questo specifico testo.
Nel merito delle soluzioni proposte (che sono alcune, non escludendo certo che possano indicarsene altre). Non si tratta di trasformare i traduttori della fascia più bassa in lavoratori subordinati. Si tratta invece di individuare forme nuove di inquadramento che riconoscano quel rapporto di dipendenza di fatto che si crea fra traduttore e agenzie in questa fascia di mercato (come in ogni altra realtà dell’economia della condivisione). Un tale rapporto di lavoro, oggi, non è codificato. Da una parte vi è l’assoluta autonomia, dall’altra la piena subordinazione. Questo è il vulnus di tutti i rapporti di lavoro dell’economia della condivisione, non solo per quanto riguarda i traduttori, che in questa branca di economia ci sono scivolati lentamente ex post: forme di subordinazione di fatto che non trovano un regolamento de jure, poiché la cultura giuslavoristica sul lavoro subordinato è ferma a un quadro economico e a rapporti sociali precedenti l’innovazione tecnologica che ha causato l’esplosione di queste forme di collaborazione, un tempo del tutto marginali. E’ altrettanto chiaro, però, che non si può nemmeno parlare di piena autonomia, in questi casi.
Infine: è evidente che tutti devono avere la possibilità di provare ad accedere alle fasce più alte di mercato e soprattutto essere informati sulla loro esistenza. Su questo, come ho anche scritto, molto si dovrebbe fare sul piano della formazione, che dovrebbe sin da subito istruire a lavorare in quel segmento, e non, come sembra fare oggi, generare laureati predestinati alle fasce più basse. Tuttavia, nell’economia di oggi vi sarà sempre, più che mai, un enorme mercato di traduzioni fatto di testi relativamente semplici e lingue più comuni. Su questo mercato, non ci si può attendere che il cliente sia pronto a pagare quanto pagherebbe un traduttore che tratta testi di alta o altissima specializzazione. Non tutti hanno il talento per giungere al segmento più alto e – aggiungo – come ben vediamo, non tutti hanno il talento per essere lavoratori totalmente autonomi e muoversi sui mercati più complessi. Inoltre, oggi è davvero difficile entrare nei segmenti più alti, con i classici titoli di studio. Un rapporto lavorativo a metà fra indipendenza e subordinazione, ancora da pensare ma che tosto o tardi dovrà pur essere codificato, non solo per il nostro settore, andrebbe incontro ai molti che non hanno i presupposti per esercitare una libera professione totalmente autonoma nei segmenti più esigenti, ma potrebbero trovare un’entrata economica ragionevole e stabile in quella fascia di mercato più bassa che oggi non è un interlocutore, poiché non garantisce stabilità. Prendere atto dell’esistenza di questo mercato non significa fare un favore alle agenzie, ma constatare una realtà che resterà presente, cercando di limitarne il più possibile le derive e convertendola in positivo. Gli strumenti e le modalità non esistono ancora. Anche per questo è necessario porre il problema. Cordiali saluti.
Fiammetta Fanni ha detto:
Articolo molto interessante e ben esposto. Io ho cominciato nei primi anni ’80, senza tutti gli strumenti attuali, conoscendo il classico lavoro con dizionari cartacei, fedeli compagni di tante notti in bianco pre-consegna.
Mi scontro quotidianamente con pregiudizi ancora presenti, riguardo alla nostra professione. Il mercato è tale per cui lavorare costantemente a tariffe adeguate alla mia formazione/competenze/esperienza è un percorso in salita. Il cliente si è abituato a tariffe bassissime, è anche capitato qualcuno che mi ha dato un incarico comunicandomi il costo a cartella, la tempistica, aggiungendo che per un Traduttore dovrebbe essere automatico tradurre, e per questo motivo non è il caso di pagare troppo. Un po’ come se andassi da un legale, dicendogli quale è la sua parcella, la tempistica, e che in fondo è la sua materia, e non può pretendere di chiedere una cifra più alta di quella decisa da me.
Sinceramente, io non mi sento di livellare un bel niente, per una questione di dignità, serietà professionale, e sopravvivenza, anche.
Il discorso secondo cui un modo per uscire dall’impasse è quello di presentarsi come professionista in un settore, con una grande competenza linguistica, è interessante. Ma come attuarlo concretamente ad un certo punto della propria vita? Personalmente, faccio della curiosità e del continuo aggiornamento uno stile di vita, e parallelamente al lavoro di traduttore (per molti anni, all’interno di aziende strutturate) ho coltivato altri forti interessi, che nel tempo sono diventati campi di specializzazione nella mia attività di Traduzioni. Ma questo non è ancora sufficiente. Per cui sono alla ricerca di strategie, magari comuni, forse alternative, che possano modificare nel Cliente l’idea che ha della nostra professione.
Elena Calcagno ha detto:
Ottimo articolo, preciso e ben argomentato. Aggiungerei una piccola considerazione che viene dalla mia esperienza personale, risalente ahimè ad un’epoca pre-informatica oltre che pre-Internet. La scarsa considerazione da parte del pubblico per questo lavoro è sempre esistita, e oggi come un tempo il traduttore e l’interprete non vengono percepiti come veri professionisti dai più. Questo è stato aggravato dal fatto che molti si sono improvvisati traduttori nella logica del lavoretto ben illustrata nell’articolo, abbassando da sempre i prezzi oltre ogni ragionevolezza.
Bilingue dall’infanzia, non conto le infinite volte in cui un conoscente si presentava con malloppi da tradurre: «Tanto per te… è una cosa da niente.» Questo accadeva negli anni ‘80. Dopo una formazione in lingue e dopo aver capito come andavano le cose, ho rapidamente cambiato mestiere, anche se la traduzione rimane sempre una passione. L’avvento di Internet e il fenomeno delle agenzie ha, a mio avviso, semplicemente ampliato il fenomeno rendendolo globale e indipendente dalla zona di residenza, dalla cerchia di conoscenze e/o dalla reputazione. Così una grande opportunità si è trasformata in un enorme problema, come ben spiegato da Lei.
Luca Lovisolo ha detto:
Condivido le Sue considerazioni. A quanto mi pare di capire, abbiamo età simili, perciò abbiamo assistito in prima persona all’evoluzione non felice del settore negli ultimi 30 anni. Oltre alle conseguenze che ben delinea Lei, l’esito di questo processo è stata la comparsa di un segmento di clientela che ha esigenze molto elevate e profilate, perciò non può affidarsi al circuito delle agenzie o dei traduttori come li si intende comunemente oggi. E’ una clientela disposta a pagare un traduttore quanto pagherebbe un qualunque altro consulente, ma gli chiede una combinazione di competenze e un modus operandi che i traduttori, formati in carriere di studio ormai omologate o minimamente differenziate, oggi non sono generalmente in grado di offrire. Quel segmento, perciò, viene occupato da persone che hanno altri profili professionali, ai quali affiancano un’eccellente conoscenza linguistica e capacità di scrittura. I traduttori con i profili più tipici ne restano più spesso esclusi, a meno di non sottoporsi a iter di riqualificazione professionale che non tutti possono permettersi. Grazie e cordiali saluti. LL
Paolo Defraia ha detto:
Una narrazione ineccepibile della situazione di mercato al giorno d’oggi. Ho apprezzato molto le soluzioni proposte, ma sarebbe interessante indagare cosa possa fare ogni professionista traduttore, nel piccolo del proprio ufficio, per migliorare la situazione globale, oltre la propria. Un cordiale saluto da Amburgo.
Luca Lovisolo ha detto:
In realtà, se il singolo traduttore riesce a migliorare la propria situazione, contribuisce già a migliorare quella globale. Essere consapevoli che tradurre a pochi cent a parola non è un modo per iniziare una carriera, nemmeno da neolaureati, toglierebbe il terreno da sotto i piedi a tanti operatori che prosperano su traduttori che dicono: «E’ poco, comincio così, poi migliorerò…» Non funziona così, ma questa errata convinzione alimenta un giro di intermediari a basso costo che non offrono al traduttore alcuna reale possibilità di crescita e nemmeno un’entrata per mantenersi, né presente né futura, ma intanto occupano il mercato. Non è che un esempio. Cordiali saluti e grazie per l’apprezzamento. LL